[…] Poi passa, l’aria si sposta. Il sonno arriva comunque.
Carmen Gallo, Le fuggitive
Speriamo soltanto (e finora invano) di fermare i genocidi, di consegnare alla giustizia chi commette gravi violazioni delle leggi di guerra (perché esistono leggi di guerra, a cui i combattenti dovrebbero attenersi) e di riuscire a fermare certe guerre imponendo alternative negoziali al conflitto armato.
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri
Esco dalla sala cinematografica e rimango in silenzio. Le amiche e compagne gioiscono, nella sigaretta-post-film, gridando all’autodeterminazione, alla libertà dei corpi, all’emancipazione, all’aver visto finalmente un personaggio femminile che compie un percorso di auto-affermazione, scoprendosi. È così. È tutto giusto.
Tutto giusto. Allora perché sto male?
Il mio silenzio continua e perdura diversi giorni. «Ancora no» rispondo, se mi chiedono cosa ne penso del film. «Ancora no».
Non sono d’accordo con chi dice che Poor Things! è il più ‘semplice’ tra i film di Lanthimos. Al cinema sono uscite dalla sala soltanto due persone per non fare più ritorno. È vero: per The Lobster era andata diversamente, ed era il 2015. Ne La favorita ho più volte provato un profondo senso di disgusto e di disagio.
Ma è Lanthimos ad essersi rabbonito o siamo noi ad aver sviluppato una sorta di assuefazione davanti alla visione dell’orrendo?
C’è una scena del film che mi ossessiona: un grido che pone l’accento su ciò che un tempo sarebbe stato il nefas, ciò che non si può dire.
Siamo sulla nave da crociera. Dopo Lisbona, Duncan Wedderburn capisce che Bella Baxter non sta alle regole che lui le impone. Scappa, scompare, si diverte senza di lui. Vive momenti di forte intensità in solitudine, come nella scena del balconcino.
Allora Duncan la rapisce (solo dopo averla drogata) e Bella si sveglia in mezzo al mare, a bordo di una nave: potenzialmente un luogo dal quale non si può fuggire.
Lui le dice qualcosa come: «Non potevo continuare a farti fare ciò che volevi» – chiaro.
È qui che la protagonista, nuovamente prigioniera nel corpo, trova la sua via di fuga/salvezza nel pensiero. Per la prima volta legge un libro e incontra due personaggi grazie ai quali nutrirà l’intelletto, e non solo quello del corpo; Martha von Kurtzroc e Harry Astley guidano Bella nella via del sapere.
BELLA I am reading Emerson. He speaks of self-improvement of men. I don’t know why he does not give advice to women, perhaps he does not know any.
MARTHA You should also try Goethe.
HARRY Philosophy is a waste of time Bella.
BELLA Really? Say more.
MARTHA No, no, Harry you wretch, it is integral. People and society can be improved.
BELLA It is a dark view of things Harry.
La visione porta con sé baccano, porta sgomento. Ed ecco che sopraggiunge, come un colpo, l’orrorifico. Il primo vero incontro col tremendo.
HARRY You don’t know the world. And you fear it.
BELLA I don’t fear it.
HARRY Do you want to see what the world is really like? I’ll show you.
BELLA Yes. Of course!
E poi, il grido.
Bella si affaccia dalla nave da crociera approdata ad Alessandria. Dal ponte della nave – simbolo di (seppur momentaneo) privilegio economico e sociale – guarda giù e vede.
Vede la morte che si manifesta in fame, vede corpi abbandonati, vede devastazione. Vede un’immagine alla quale noi siamo ormai completamente abituate. Come ce ne accorgiamo?
Perché la protagonista, al contrario di noi, urla.
Urla per un tempo lunghissimo. Spalanca gli occhi. È sconvolta. È l’unico momento del lungometraggio in cui Bella Baxter è veramente sconvolta. Non sa dove appigliarsi, non sa come si fa questa cosa di assistere all’orrore.
Il grido si manifesta come una sorpresa. Gray, autore del romanzo dal quale è tratto il film, e Lanthimos la sostengono, rendendole grazie con un elogio alla durata.
Quella di Bella Baxter è una voce che rompe il silenzio e si pone come reazione alla visione orrorifica dell’ingiustizia.
Impossibile non pensare al silenzio che pervade oggi gran parte delle istituzioni culturali e politiche in relazione al genocidio che sta avvenendo in Palestina. Un’operazione militare che va avanti da cinque mesi in modo sistematico, incessante, con attacchi quotidiani, che viola il diritto internazionale e dei crimini di guerra e che, nel momento in cui scrivo, conta più di 27 mila morti.
Assistiamo quotidianamente alla testimonianza fornita da persone inviate, giornaliste, fotografe sul campo, attiviste che operano sui social network, civili, persone, chiunque.
Possiamo vedere quello che accade sulla striscia di Gaza (e non solo) eppure si continua a dormire la notte e l’indomani ci si sveglia sorprendentemente vive. Lo stesso non si può dire di altre. Tutto sta nel chiedersi:
Che farsene di questa consapevolezza? Dove ce la mettiamo?
Un genocidio è di nuovo in atto e un giorno verrà pagato il prezzo di questa indifferenza – quando non è complicità o mascheramento – che avvolge le istituzioni: prendere una posizione davanti al dolore degli altri (articolo di wall:out W:OW | Davanti al dolore degli altri – noi, l’arte e la fotografia – report del talk), davanti al crimine, davanti all’ovvietà.
Quel grido è, dunque, uno squarcio. Un varco. Un portale verso un’altra forma di autodeterminazione di cui il film di Lanthimos, a mio avviso un grande capolavoro, è pregno.
Si può gridare davanti all’orrore. È lecito sentirsi male davanti all’orrore.
Immagine di copertina:
Poor Things! Immagine di Zuza Miśko. Fonte printerval.com licenza creativecommons
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