Secondo il “World Urbanization Prospects 2018” delle Nazioni Unite, nel 2050 circa il 70% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, in Italia lo spopolamento dei borghi è una problematica reale, eppure nell’arco dell’ultimo anno stiamo assistendo a una lenta inversione di rotta.
Luca Garavaglia nel suo articolo “Post-Covid cities, between villages revenge and hyperconnectivity” su Domusweb (2020) evidenzia da un lato il fenomeno di svuotamento delle metropoli, dall’altro l’aumento degli spazi virtuali. La costituzione di nuove centralità diffuse nel territorio e una nuova urbanistica sono realmente possibili solo dove vi è una buona accessibilità alla rete infrastrutturale e alla rete intangibile del web, a partire dalle opportunità di telelavoro.
D’altra parte, facendo riferimento all’articolo “Per una critica della narrazione salvifica delle aree interne” su lavoroculturale.org (2021) di Giulia De Cunto e Francesco Pasta, “Ci sono buone ragioni per dubitare che soluzioni futuribili come lo smartworking e le consegne via drone siano sufficienti a garantire una trasformazione culturale di questa portata”. Il fenomeno dei nomadi digitali e il parallelo processo di rivoluzione tecnologica devono necessariamente essere accompagnati da un “ripensamento più profondo degli stili di vita e dei modelli produttivi”.
Ed è in questo contesto che si colloca NATworking.
Smartworking, natura, network: NATworking è tutto questo, ma non solo.
NATworking è la prima rete interregionale (Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta) di spazi dedicati al lavoro agile e allo studio in ambienti naturali. Un network attivo di promozione sociale e sviluppo locale che incentiva il turismo dolce e la fruizione del patrimonio inesplorato.
NATworking è un progetto che sta prendendo forma proprio in questi mesi (hanno appena lanciato un Graphic Contest!) . Si concretizzerà in una piattaforma digitale che metterà in rete gestori che offrono spazi per lavorare e studiare e/o posti letto, enti territoriali che offrono servizi complementari di attività culturali o sportive immerse nella natura e utenti interessati a conciliare lavoro e tempo libero esplorando il territorio.
Quali sono però i vantaggi per ciascuno di questi attori?
Gli utenti prenoteranno uno spazio dove lavorare o studiare in un contesto naturalistico, più rilassante e stimolante di quello urbano. Allo stesso tempo le relazioni interpersonali nate tra le scrivanie del NATworking potranno proseguire dopo l’orario lavorativo, con le attività offerte dalle realtà locali.
Gli enti territoriali, ovvero pubbliche amministrazioni, istituzioni, enti del terzo settore e piccole realtà associative locali, avranno l’opportunità di rivolgere i propri servizi di cultura, salute e sport ad un pubblico più ampio, estraneo al contesto locale.
Infine i gestori avranno l’occasione di rilanciare i propri spazi, attivandoli in giorni infrasettimanali in cui spesso sono sottoutilizzati, come accade per esempio nel caso dei rifugi.
A questo punto è chiaro il ruolo di utenti, gestori degli spazi ed enti territoriali, ma quello dell’associazione NATworking?
NATworking predispone le regole per aderire alla rete e alla piattaforma digitale, offre un suo progetto culturale complementare alle attività organizzate su iniziativa locale e si occuperà dell’ampliamento della rete, creando le connessioni tra tutti gli attori.
NATworking è la miccia che innesca il processo e l’ossigeno che continuerà a dargli vita nel tempo.
E chissà, magari un domani si occuperà anche della riqualificazione fisica degli spazi. Sì, perchè questo è un progetto di rigenerazione urbana e ancora non abbiamo parlato di “rimessa a nuovo degli spazi”. Strano vero?
E invece no, perchè “la rigenerazione urbana va a braccetto con l’innovazione sociale”, come afferma Eleonora del team di progetto:
“Credo che molti intendano la rigenerazione urbana in senso unicamente fisico: uno spazio abbandonato che sia la fabbrica, il mercato, ecc, che diventa qualcos’altro. Non è però soltanto questo. Si tratta di un processo culturale, civico e sociale che si mette in atto con le persone che abitano quei luoghi, quegli spazi, ovvero i cittadini, i fruitori ed è frutto di una collaborazione con gli attori sociali e le istituzioni.”
Miriam appoggia la collega sostenendo la difficoltà nel definire la rigenerazione urbana:
“È un processo che inizia e non ha propriamente una fine. Si struttura in itinere con una comunità e coinvolge attori con un ruolo differente ma ognuno fondamentale. È finalizzato alla restituzione di qualcosa a un territorio o a una comunità, che sia un bene fisico o un servizio.”
È fondamentale quindi presentare il giovane team di progetto, formato dai più svariati profili professionali, perché ancora una volta si rivela necessario affrontare il tema urbano con un approccio interdisciplinare.
Chiara Guidarelli e Miriam Pepe, architette, ed Eleonora De Biasi, progettista culturale, sono specializzate in rigenerazione urbana. Giulia Cerrato è progettista socio-culturale, dott.ssa in Architettura del Paesaggio, Jacopo Scudellari è pianificatore urbano e territoriale, Alessandro Laspia è ingegnere gestionale, ricercatore e dottorando in start-up ad impatto sociale e ambientale, e Antonietta Saponaro è psicologa.
Il progetto è sostenuto dalla Fondazione Compagnia di San Paolo e Fondazione Carige e ad oggi i partner sono Associazione Dislivelli, Coop. NEMO e APS Alle Ortiche, realtà genovese su cui Wall:out ha già puntato i riflettori.
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Immagine di copertina:
Illustrazione di Martina Spanu
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