L’Elenco:
Assassini, tossicodipendenti, spacciatori, prostitute, sfruttatori, caporali, schiavi, ricettatori, picchiatori, usurai, trafficanti di armi, trafficanti di droga, rapinatori, cadaveri, sparatorie, accoltellamenti, minacce armate, risse, retate, lanci di tombini, spaccate, furti, sequestri e confische, aggressioni verbali, minacce, intimidazioni, corruzione, omertà, ricatti, bugiardi, processi, schiavi e schiavisti, suicidi e rassegnati.
In tanti anni di attivismo nel contrasto alle attività predatorie della criminalità organizzata nel quartiere della Maddalena e in Centro storico a Genova, mi è capitato di incontrare un sacco di persone diverse e una marea di fenomeni diversi.
Ho imparato che quando lo Stato lascia uno spazio, esattamente lì prolifera la miseria e si diventa facili prede. La criminalità spolpa e divora appena la società arretra o si arrende.
Non vivo in carcere, non ho precedenti penali, non sono avvezzo ai tribunali, non mi occupo di cronaca, eppure ad oggi ho incontrato quell’elenco di persone e fenomeni che ho stilato qui sopra.
Li ho incontrati e toccati con mano, vivendoli mio malgrado facendo il commerciante e colorando fumetti. Mi chiedo quanti di voi, “miei piccoli lettori”, nel vostro quotidiano possano vantare un così nutrito ventaglio di miserie.
Uso spesso L’Elenco quando racconto la mia storia perché identifica precisamente cosa vive chi sta qui se apre gli occhi e cosa invece NON si vive fuori di qui.
Ogni volta che ho l’occasione di parlare con giovani scout, insegnanti o studenti nelle scuole che si interessano al problema mafioso del nostro paese, non ho alcuna idea di come iniziare un’analisi comprensibile. Alla fine di ogni incontro è però certo che praticamente tutti mi faranno una domanda e per una volta, vorrei provare a partire dal fondo, dal punto interrogativo che più frequentemente mi viene posto:
“Ok, ma noi cosa possiamo fare?”
In questa Domanda c’è la legittima curiosità di chi mi ha ascoltato per ore raccontare de “L’Elenco”, con la dovizia dei particolari necessari a comprendere la ragione per cui a un certo punto ho deciso che non mi sarei girato dall’altra parte, ma c’è anche la sacrosanta intenzione di mettersi in gioco.
Mi riempie d’orgoglio quando questa intenzione viene espressa da giovani, ancor di più quando viene espressa da giovani che si interessano al problema avendo meno anni di me quando ho iniziato. Vuol dire che sono cresciuti nell’ambiente giusto e che la loro sensibilità indicherà loro la strada più di quanto possa fare io, o chiunque dei molti amici che fanno quello che faccio io.
Sono molto ottimista e sono concretamente fiducioso che le nuove leve, purché lasciate LIBERE di fare, faranno bene.
In un recente incontro al Centro Banchi (ENIG-MALAVITA. Storia di un’idea semplice), Antonio Lijoi ci ricordava, a ragione, quanto sia importante prendere posizione, votare, assicurarsi che chi sosteniamo non abbia implicazioni o connivenze con organizzazioni o famiglie criminali o mafiose.
Sono molto d’accordo con lui.
Però ho bisogno di chiarire un punto, perché non amo schematizzare troppo i fenomeni umani:
la nostra vita si compone di occasioni, successi, momenti inutili, disgrazie e traumi. Tutto dipende da come decidiamo di vivere. Non credo a quelli che dicono: “va bene tutto, vivi e lascia vivere”, non mi fido assolutamente di quelli che dicono: “andrà come deve andare, prendila con filosofia”.
Noi e voi possiamo essere l’ago della bilancia. Noi e voi possiamo decidere insieme oppure possiamo decidere per noi stessi. Noi e voi possiamo “decidere” di essere altruisti oppure di essere egoisti. È una scelta.
Ogni volta che scegliamo, lo facciamo grazie alle nostre occasioni, ai successi, ai momenti inutili, alle disgrazie e ai traumi che abbiamo subito e vissuto. Ogni volta che scegliamo di essere egoisti, è perché gli altri ci hanno deluso, frustrato e mortificato e non c’è nulla di male, sia chiaro; ogni volta che scegliamo di essere altruisti è perché gli altri ci hanno restituito qualcosa e non c’è nulla di male.
Non si è altruisti per un istinto innato.
Non lottiamo per il bene degli altri perché di punto in bianco diventiamo santi.
Anche nella promessa religiosa c’è un paradiso per gli altruisti. Sempre.
E allora ok, cerchiamo di informarci meglio che possiamo, ma occhio!
Un mafioso non va in giro con una fascia su un braccio o un cartello al collo che indica la cosca o la ‘ndrina di appartenenza, anzi, l’obiettivo di un affiliato è proprio di fare in modo che chiunque lo identifichi, se lo identifica come mafioso, ne abbia paura.
Un bel coraggio!
Quindi bisognerà farsi più furbi dei furbi.
Quindi bisognerà iniziare dal fondo come sto facendo io ora. Riprendere il filo da chi ci è già passato. E ve lo dico molto chiaramente, non è sufficiente organizzare un convegno con testimonianze e testimoni. Non basta leggere tutta la bibliografia di Saviano e di Gratteri per dirsi esperti e attivi. Nulla cambia se oltre alla nostra voglia di “conoscere” non c’è anche un obiettivo specifico e ben piantato in terra che non venga spazzato via dalla prima folata di vento. Questo obiettivo in genere è determinato da un vissuto, ma non è detto, a volte è sufficiente avere la giusta dose di empatia.
In uno dei primi incontri pubblici da Presidente del Consorzio di Commercianti del quartiere della Maddalena, il 20 Giugno 2007, si avvicinò un abitante e stringendomi la mano mi disse: “Hai un bel coraggio!”
Parlo di un amico sopra ogni ragionevole dubbio, ma nel portarmi quello che io in quel momento interpretai come il suo sostegno, inavvertitamente mi suggerì che servisse coraggio per esporsi pubblicamente e che quindi stavo facendo qualcosa di “pericoloso”.
Non registrai subito la velata minaccia, eppure mi ero candidato alla presidenza del Consorzio perché pensavo di dover cambiare l’azione dei commercianti nel placido declino al quale si erano definitivamente arresi.
Era stato ucciso Giuseppe Alessi in Vico Posta Vecchia il 21 aprile di quell’anno.
Durante il periodo universitario (primi anni 2000), in un appartamento a fianco ci vedevamo con i colleghi per studiare, pranzare e fare feste. La notizia sconvolse la città e in me aveva forse toccato qualche cosa di più, svegliandoci di schianto e regalandoci un atteggiamento smaliziato senza possibilità di ritorno.
Ogni volta che parlavo con i Bottegai della zona in cui ero nato e che amavo, mi rendevo conto che non riuscivo a superare il muro del “non cambierà mai nulla, si è sempre fatto così”.
Il cambiamento è fondamentale
Qui mi arrivò forte e chiaro un altro insegnamento proprio dalla criminalità: “mai restare uguali a sé stessi”. Il cambiamento spiazza e non consente a chi osserva di prendere gli adeguati provvedimenti, perché tempo che si è capito il fenomeno criminale e si decide di procedere, tutto muta: lo scenario, gli attori, l’attività criminale. E mentre la società civile molla, i criminali no. Il loro tempo è potenzialmente infinito perché il loro rapporto con il tempo e la vita è a termine. Quindi sanno come cambiare, come porre fine a qualsiasi cosa, nulla è eterno.
Il cambiamento è fondamentale e la criminalità organizzata lo sa, sennò banalmente non la definiremmo “organizzata”.
Ho capito che non è sempre vero che hanno punti di riferimento politici, commerciali, associativi, ma avviene semmai il contrario il più delle volte. Sono i commercianti, i politici, i singoli che si riferiscono alla criminalità organizzata nel momento del bisogno e, nostro malgrado, ci siamo accorti che a volte il bisogno è l’unico motore che fa funzionare gli ingranaggi delle organizzazioni. Chiaro, a volte il bisogno è indotto ma il più delle volte no.
Ogni volta che spiego queste cose devo specificare che parlo di un vissuto. Non ho quindi alcuna intenzione di spiegare una meccanica rigida e monolitica, ma in quanto specifica esperienza soggettiva, quello di cui parlo appartiene a me, è discutibile ma non sindacabile. Lungi da me dare insegnamenti o giudizi.
È la mia esperienza.
Faccio un esempio, c’era un problema con gli affitti spropositati che i commercianti pagavano su immobili devastati e mal combinati e avevamo già prodotto qualche iniziativa e qualche risultato; quindi istituzioni e media ci osservavano con attenzione e nel 2008 con il Patto per lo Sviluppo della Maddalena, potemmo iniziare a imprimere una direzione al territorio.
Non so se si è notato ma ho iniziato a usare un plurale maiestatis che imparai a mio vantaggio essere alla base di quell’attenzione. “Pensavamo strano” con i commercianti della Maddalena. Non ci adeguavamo e soprattutto non ragionavamo da Bottegai.
Il gruppo che si era creato studiava, si informava, si vedeva spesso, discuteva, ragionava e a volte litigava. Era un gruppo formidabile di donne e qualche ometto. Intelligenti e professionali. Inarrestabili.
Furono anni di progettazione, impegno e fatica. Infinite e continue assemblee, riunioni, analisi e denunce. Avevamo iniziato a rispondere alla domanda che è alla base di questo ragionamento.
Non sono mancate le minacce in quegli anni e non sono mancati i codardi a girarci le spalle e a metterci nei guai, ma il gruppo di allora era solido e coscienzioso. Nel 2010 avevamo già fatto parecchio e ne venivamo da esperienze complesse come le vicende intorno alla Confisca a Rosario Caci in Vico Mele definita nel 2005, presa in carico nel 2006, ma di fatto mai eseguita.
Questo per cavilli e truffe dello stesso Caci, che aveva convinto le autorità di essere disabile e di dover alloggiare in Albergo a spese del Comune di Genova. La storia è più complessa e alcuni me l’hanno sentita raccontare mille volte – se passate a trovarmi ve la racconto altre mille.
Quando ci si unisce in un obiettivo comune bisogna ricordarsi sempre che è l’unione che fa la forza e non bisogna mai stancarsi di far memoria, ma anche non facciamola troppo lunga.
Noi eravamo uniti ed era bello così.
Ci unimmo ancora di più
Poi successe che con la Confisca Canfarotta – il sequestro nell’operazione “Terra di Nessuno” che richiederebbe un capitolo a parte per raccontarla con perizia; risaliva al 30 Giugno 2009 mentre dovemmo attendere il 2014 per la definitiva confisca – ci unimmo ancora di più e il gruppo iniziò ad allargarsi e le istituzioni non poterono più ignorare l’onda delle molte anime che chiedevano riscatto.
Lo ricorda spesso Giorgia Casabona del Comune di Genova che a un certo punto si è trovata con alcuni di noi nel taschino a “pretendere” che il Comune facesse la propria parte nel riutilizzo dei beni confiscati (articolo di wall:out Il riutilizzo sociale dei beni confiscati a Genova. Difficoltà e risultati).
Eravamo frustrati e infastiditi dall’inattività dello Stato. Non si riusciva a fare un passo avanti, anzi, tutto quello che fino a lì era stato fatto rischiava di essere vanificato da piccole sciocchezze burocratiche e dalla mera disorganizzazione.
Era tutto nuovo per loro, ma non per noi che avevamo già guidato l’affidamento della confisca di Vico Mele, quindi pensavamo di avere l’esperienza e ci illudevamo che saremmo stati più veloci e più bravi di allora. Ci sbagliavamo di grosso, ma non ci arrendemmo.
La fondazione del Cantiere per la Legalità Responsabile nel 2016 siglava l’inizio di un percorso collettivo che andava a coinvolgere e a impegnare un gruppo di indirizzo e di stimolo e fu con questo strumento che incontrammo gli uffici comunali poco tempo dopo. Furono loro a rispondere per primi e malamente nel 2019. Pasticciarono parecchio, ma una risposta c’era stata e quindi valeva la pena insistere.
Oggi, a distanza di anni, Genova è la città più veloce d’Italia nell’affidamento dei beni confiscati.
In somma sintesi ecco cosa si può fare
Unirsi, studiare e conoscere insieme; vivere e toccare con mano e poi lavorare con le istituzioni ricordandosi che nessuno è infallibile e che confliggere è nella natura delle cose ma poi si riparte; ci si dà qualche pacca per levar via la polvere e si riparte, magari con qualche doloretto, ma si riparte.
Ecco cosa penso mi abbia portato avanti in questi anni, il ricordo di chi ho perso nel tragitto, certo, ma soprattutto il rispetto e l’onore di essere con quelli che sono rimasti, duri a tener duro, a levar via la polvere anche dai miei vestiti e io dai loro.
Insieme a ricalcolare nuovi tragitti per non mollare mai e ritrovarsi sempre in un percorso umano, fatto di errori e successi, di amori e dissapori ma anche di affetti e sogni.
Non credo che vedrò mai lo smantellamento della cultura mafiosa del nostro paese, che ha oppresso anche la nostra città e che continua a opprimerla. So però che già oggi a Genova è più difficile subire in silenzio, perché c’è un folto gruppo di vecchie leve e nuovi attivisti che hanno competenza e energie.
A Genova possiamo sognare, è un nostro dovere, e la polvere è solo polvere e va via con qualche pacca e qualche abbraccio.
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