Un giorno, un amico straniero mi ha detto: “Ho girato mezzo mondo e di tutti i posti in cui sono stato, solo in Italia avete l’abitudine di parlare di cibo mentre mangiate!” Io non sapevo allora e non so tuttora se sia vero che siamo proprio lɜ unicɜ a farlo, ma senza tema di smentita mi sono comunque sentita di confermare il nostro essere culinariamente tautologicɜ. Per di più, abbiamo trascorso l’ultimo anno passando dalla corsa all’ultima confezione di lievito alla fatica di bere un caffè come si deve in zona arancione, ingigantendo a dismisura la preponderanza del tema cibo nei nostri pensieri e nelle nostre giornate. Luca Trevisani
Pandemia o no, Luca Trevisani è un artista che dal cibo si è sempre lasciato affascinare volentieri.
La sua personale alla galleria Pinksummer Contemporary Art, inaugurata lo scorso 6 marzo, presenta lavori che sono nati nel corso degli ultimi mesi da un esperimento: provare a svuotare frutta e verdura di stagione, farne seccare le bucce e trasformarle in piccoli recipienti.
All’entrata, l’attenzione è immediatamente catturata da tre teche contenenti quelli che a uno sguardo superficiale sembrano objet trouvé o reperti archeologici: ogni singolo esemplare ha il suo piedistallo dorato e la sua posizione coreografata, che ne permette una visione quasi a 360 gradi. L’immaginario museale dell’allestimento sospende il tempo e lo spazio, inondando di luce le stanze in cui le pareti e il pavimento sono rigorosamente immacolati.
Guardare da vicino le sculture organiche di Luca Trevisani all’inizio è un gioco: “che frutto sarà stato questo piccolo vasetto?”
Nondimeno, mentre l’indagine prosegue, è inevitabile iniziare a immaginare come siano state realizzate le opere e pian piano la vertigine della loro genesi turba anche l’osservazione più distaccata.
Quegli oggetti che solo in apparenza sembrano innocui, “le buone cose di pessimo gusto”, il tipo di suppellettile che si può trovare nelle case di campagna di qualche lontanə parente, a poco a poco rivelano la loro intima violenza: scheletri di una materia rigogliosa e prospera, sono diventati rifiuti, il segno di ferite deliberatamente inferte a organismi biologici.
Non siamo di fronte a resti disidratati di pasti, siamo di fronte a vere e proprie reliquie, che ci trasportano nella dimensione rituale della cucina e del nutrimento.
Siamo di fronte a oggetti strappati al ciclo della natura, totem della tensione tra volontà trasformativa e produzione di scarti, esiti di una digestione incompleta, fossili dell’attività dell’artista e leggi della biologia. La secchezza, l’aridità delle superfici scavate fanno da contrappeso materico al vuoto lasciato dalla polpa e dai succhi, rivelando il negativo scultoreo dell’esperienza del cibo.
La traccia di una vita ormai spenta, ma ancora distinguibile nei corrugamenti e nei solchi, trova corrispondenza nei pattern e nei colori inattesi delle stampe su carta cotone, che raccolgono le impronte degli agrumi e delle verdure usate per tingere il supporto. Anche in questa serie, il lavoro dell’artista è stato quello di definire la cornice concettuale della sua pratica, praticare un semplice gesto e lasciare che la chimica facesse tutto il resto.
Una collaborazione alla pari tra essere umano e natura, in cui la materia stessa è la vera artefice dell’opera e il principio di autorialità si dissolve nell’alchimia della metamorfosi.
“Credo nel potere cognitivo dell’arte e della scultura, ma soprattutto nel potere conoscitivo della cucina, come forma di sapere democratico che si esercita dal basso, come lente di ingrandimento per capire, e per decidere, l’animale che vogliamo essere. […] La cucina esiste per mantenere il fuoco, e quindi il rito. Queste mie ricette sono terapeutiche, ma non perché vogliono lenire, ma per tenere aperte le ferite, non si propongono di cauterizzare il nostro io, ma di scucire ogni sua difesa. Altari alla fragilità, vanitas, memento mori, natura morta, chiamiamole come volete, il genere è quello. Sono l’immagine perfetta del nostro inciampare in un mistero, un’immagine dal corpo solido ma dall’anima liquida, sfuggente ma non svanente, che resta come un monito senza tempo. Il cibo è il collante tra il nostro corpo e il paesaggio tutto, mangiare esorcizza la paura dell’eterno, i lavori che metto In Boccainterrogano quel che accade alla materia quando questa si separa dalla nozione di individuo, alla fine dell’io, oltre il sogno narcisista, quando quel che siamo va dove mai sapremo.”
Ripudiando la dimensione performativa del cucinare, quella della follia da lievitati del lockdown, come quella competitiva dei programmi televisivi che riempiono le nostre case di improvvisatɜ masterchef, Luca Trevisani recupera il senso del rapporto autentico con il cibo, che si sostanzia prima di ogni altra cosa attraverso il corpo, il tatto, la manipolazione della materia, e passa ancestralmente dal primo modo che abbiamo per contattare il mondo: la bocca.
Immagine di copertina:
Exhibition view, Luca Trevisani – In Bocca. Photo credit Giulio Boem, courtesy l’artista e Pinksummer
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