Prendiamo l’esempio di Villa Serra di Comago. Un parco storico, in una zona periferica rispetto al centro del comune Genovese. Un parco bellissimo, in cui si possono immaginare progetti e possibilità pazzesche per la comunità che ci vive attorno – e non solo. In questi giorni, è diventato il centro di un piccolo scontro politico tra l’attuale amministrazione del comune di Genova e le amministrazioni dei comuni di Sant’Olcese e Serra Riccò.
Dopo anni di gestione attraverso un consorzio con la partecipazione dei tre Comuni, la proposta – da parte dell’amministrazione genovese – è quella di liquidare questo Consorzio e indire un bando di gara per individuare un soggetto capace di meglio “valorizzare” la risorsa rappresentata da Villa Serra.
A una prima lettura, il cuore di questo scontro sembrerebbe riassumersi nell’opposizione tra una privatizzazione e una gestione pubblica del parco, che finisce per semplificare tutta la faccenda tramite l’ennesimo scontro ideologico tra chi sostiene il libero mercato e chi una gestione pubblica.
Così, nella nebbia del reciproco additarsi come incapaci a gestire una risorsa così preziosa o come insensibili alla natura comunitaria di un bene comune, scompaiono progressivamente dall’ordine del giorno tutte quelle possibilità e quei progetti pazzeschi che si volevano immaginare all’inizio.
Prendiamo, allora, l’esempio di Villa Serra di Comago. Sembra una cosa marginale, in questo momento storico. Eppure, a guardarla bene da vicino, potrebbe essere una specie di piccolo laboratorio da cui imparare un sacco di cose. Per esempio, qualcosa riguardo alla faccenda dei beni comuni.
Il caso di Villa serra, infatti, potrebbe rappresentare una grande occasione per diventare protagonisti, a partire dalle periferie genovesi, nella riflessione su come liberarci una volta per tutte dalla palude della dicotomia pubblico-privato. È chiaro che queste categorie servono bene una certa retorica politica a cui conviene rimanere inchiodata a una divisione tra opposte tifoserie. Tuttavia, il caso Villa Serra mostra in maniera cristallina quanto poco spesso questa retorica abbia a che fare con la pratica quotidiana dell’amministrazione politica di un territorio.
Invece che perdersi nelle sabbie mobili di una discussione tra responsabilità pubblica o privata, non sarebbe forse più smart (leggi l’articolo di wall:out sul significato di Smart City) capovolgere il ragionamento e cominciare dal domandarsi quali obbiettivi si ritengono prioritari e, di conseguenza, quale tipo di soggetto è più adeguato e capace di portarli a termine?
Cosa si vuole da una parco?
Per esempio che sia disponibile e accessibile alla comunità territoriale che vi abita intorno e accessibile e disponibile ai progetti e possibilità che quella comunità può e vuole immaginare.
E che tutto questo sia possibile senza dover passare per il ricatto (privato) di una proprietà manageriale che ha come obiettivo legittimo il profitto; o per il ricatto (pubblico) di un amministrazione che ha come obbiettivo legittimo il consenso elettorale. Dice, sì, vabbè, impossibile. Non proprio. Almeno se si comincia a pensare il parco come un bene né pubblico, né privato, bensì, appunto, come un “bene comune” (Generazioni Future).
La storia della giurisprudenza italiana sui beni comuni è ancora da finire di scrivere, ma proprio la vicenda attuale di Villa Serra di Comago sarebbe un caso da manuale da inscrivere in questa tipologia, che mira proprio, come scrive Mattei nel suo Manifesto per i beni comuni, a emanciparsi tanto dalla logica pubblicistica, tipica della delega allo Stato e ai suoi apparati, quanto da quella privatistica, tipica dell’individualismo possessivo. Con l’obbiettivo, quindi, di immaginare strutture di governo e figure di amministratori di questa categorie di beni, con competenze ecologiche, cioè legate alle comunità di riferimento e libere dall’arbitrio dei confini giurisdizionali del mercato, dello Stato e degli enti territoriali.
Si tratta di una questione complessa, non c’è dubbio. Tuttavia, al momento rimane un punto piuttosto interessante da considerare.
Il presupposto principale alla base della richiesta del Comune di Genova di sciogliere l’attuale Consorzio (pubblico) partecipato dai 3 Comuni per sostituirlo, tramite bando di gara, con un soggetto (privato) meglio capace di governare il parco rispetto all’attuale gestione è, nelle parole del vice-sindaco di Genova Piciocchi quello della “valorizzazione” del parco.
Si dice: in fondo, quello che vogliamo è una “valorizzazione” di una “risorsa” preziosa per tutta la comunità. D’altronde, chi può mai essere contrario alla valorizzazione delle risorse?
Ecco, il senso più alto della battaglia giuridica per il riconoscimento della categoria dei beni comuni, mi sembra, sta proprio nel rompere con questo tipo di linguaggio – e le sue conseguenze politiche in termini di diritti sociali. Valorizzare le risorse è un’ottima strategia di ottimizzazione razionale per guadagnare quote di mercato a spese dei propri competitors. Ciò nonostante, se invece si cercano strategie e amministratori capaci di trasformare un parco in un bene comune capace di includere e potenziare la solidarietà comunitaria attraverso una gestione finanziaria intesa come strumento invece che come obiettivo, allora ecco che si apre uno spazio ragionevole per dire anche no alla valorizzazione.
Immagine di copertina:
Foto di Mabel Amber
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