Derby

I derby della solitudine

Tre stracittadine in una sola stagione a Genova mancavano da 18 anni. Tre sfide da “apriti cielo” vissute a porte chiuse, un sacrificio necessario da prendere con un sorriso amaro. Iconico e malinconico, come la sua città.
26 Novembre 2020
2 min
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Genova vuoi o non vuoi è una città che non si ferma mai. “Città da capire e aria da bere” ci hanno raccontato gli artisti uniti per Genova qualche anno fa, quando videro crollare così di punto in bianco uno dei suoi punti cardinali. Genova dà e Genova toglie. Come i Derby della Lanterna.

In tutti i suoi vicoli e nei suoi saliscendi, fra gli scorci a un passo dal mare e le strade che puoi prendere soltanto controvento, Genova nella sua quotidianità vive di contrasti. Vive dei suoi contrasti e guai a chi glieli prova a mettere a posto. Meglio lasciarli lì al proprio posto, che magari con il tempo si rivelerà persino quello giusto.

Genova prendere e lasciare, chi la porta in giro per il mondo ne tiene in palmo di mano con orgoglio le vittorie, ma negli anni ha imparato anche a dover fare i conti con il sapore amarognolo della sconfitta. 

Nei giorni prima del derby, ai tifosi di Genoa e Sampdoria meglio non chiedere di fare i conti, figurarsi parlare di vittorie e sconfitte. Al massimo ci si accontenterà di un pareggio, ma solo dopo aver combattuto per 90 minuti senza esclusione di colpi. Il colpo più basso per lo sport cittadino è arrivato nel 2020. 

Tre derby in una sola stagione – due in campionato e il più vicino sul calendario, quello in Coppa Italia – sotto la Lanterna non brillavano da 18 anni.

Ben consapevoli del fatto che ci sia di peggio, suona come un bello scherzo del destino. Oltre al danno anche la beffa. “A noi piace così, lo chiamiamo mugugno” ci hanno insegnato ancora quegli artisti.

Come ad inizio novembre, neanche a fine mese basterà essere maggiorenni per trovare posto su un seggiolino, sul divano di un amico o sul bancone di quel bar dove hai già esultato per un gol decisivo in una stracittadina del passato. Il presente impone senso di responsabilità, le televisioni si preparano a fare gli straordinari. Interviste e pubblicità, chi più ne ha più ne metta per far passare il tempo e non ricordare a nessuno che dietro le telecamere gli spalti sono deserti.

Da Sud a Nord, dalla Nord alla Sud sul campo non arrivano voci se non quelle dei pochi addetti ai lavori ammessi allo stadio e il ronzìo delle luci del Ferraris, accese fino a notte fonda. Oltre il coprifuoco. 

Nel duello generazionale fra le due squadre genovesi, in una regione da un milione e mezzo di abitanti, i tifosi da sempre si godono le gioie e superano i dolori fianco a fianco con chi vive per la stessa squadra. Ormai da mesi e chissà ancora per quanto, le emozioni dovranno dividerle da soli. Al massimo potranno condividerle sui social l’indomani.

Oggi sono come numeri primi, divisibili solamente per uno e per se stessi. Mai così uniti e mai così lontani da chi è esattamente come loro.

Sampdoria-Genoa, Genoa-Sampdoria, voiâtri contro noiâtri. Tre partite da “apriti cielo” vissute a porte chiuse sono un sacrilegio del calcio e della socialità. Sarà iconico e malinconico doverlo vivere senza tifosi allo stadio, caroselli per la strada o carovane di amici sul pianerottolo di casa. La Genova nel pallone è unita nel silenzio e non basta una canzone per descriverne la desolazione. Forse basterebbe un coro, come ai vecchi tempi, che bussano alla porta ricordandoci che il derby è oggi.

Un sacrificio necessario da prendere con un sorriso amaro. Iconico e malinconico, come la sua città.

Immagine di copertina:
Foto di Lorenzo S.


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Giornalista genovese, studia Lettere Moderne e vive di sport. Scrive di tutto, che forse è troppo ma non è mai abbastanza. Benedetto Croce diceva che fino a 18 anni tutti scrivono poesie e che, da quell’età in poi, rimangono a scriverle solamente due categorie di persone: “i poeti e i cretini”. A 24 anni, lui non ha ancora capito da che parte stare.

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