Qualche tempo fa ho intrapreso una lettura che mi ha offerto numerosi spunti di riflessione e che mi ha aiutato – soprattutto – ad approfondire alcune storture della nostra società. Il libro è stato scritto da una giornalista britannica, Caroline Criado Perez, e si intitola “Invisibili” (Einaudi editore, 2020). Vedere come poche settimane più tardi la copertina dello stesso testo sia rimbalzata da un profilo Instagram all’altro, da una storia all’altra, mi ha dato la prova che avesse raggiunto picchi di notorietà importanti.
Ma ciò che si trova all’interno dei suoi capitoli, cosa lascia nei pensieri di chi legge? Frustrazione, principalmente.
Perlomeno questo è il sentimento che traspare nei commenti di tantɜ ragazzɜ. Mia sorella, da cui ho preso in prestito “Invisibili”, mi spiega come anche lei, pur non avendo ancora finito la lettura, avesse provato qualcosa che può essere definito con questo termine.
La frustrazione di non essere ascoltatɜ (in ambito accademico/scientifico), la frustrazione di essere consideratɜ più come un problema che come una risorsa (sul luogo di lavoro), la frustrazione di non essere abbastanza calcolatɜ nella definizione di numerosi standard (dal settore urbanistico a quello del design, dal campo dei trasporti alla progettazione di automobili, per citare alcuni esempi).
Passiamo ai numeri. Numeri e dati, che meglio di ogni altra cosa possono chiarire il concetto di Global Gender Gap
Certo, vanno sempre contestualizzati, ma da questi difficilmente si scappa. Global Gender Gap cosa significa, intanto, questa espressione?
È un indice, introdotto nel 2006 dal World Economic Forum (WEF), per fornire un’indicazione del divario esistente tra uomini e donne, sotto vari punti di vista. Dalla sanità, all’istruzione, dalla rappresentanza politica alla gestione aziendale, la lente di ingrandimento può essere applicata sostanzialmente ad ognuna di queste bolle, che intrecciate fra loro danno luogo alla società. Ed è stato proprio il WEF – World Economic Forum a calcolare che se il gender gap venisse colmato “gli effetti delle economie dei paesi sviluppati sarebbero notevolissimi: il PIL degli Usa crescerebbe del 9%; quello dell’Eurozona addirittura del 13%”.
Alcuni esempi concreti?
Eccone uno: una quota consistente delle startup in ambito tecnologico è finanziata dai cosiddetti venture capitalist, soggetti in grado di assumersi rischi finanziari che le banche non potrebbero sostenere. Il problema è che lɜ investitorɜ sono per la stragrande maggioranza maschi. Nel 2017 la quota raggiungeva addirittura il 93%.
Va da sé che spesso gli investimenti fossero monodirezionali. Negli anni seguenti va attestato un qualche miglioramento, come riporta l’Associazione Italiana del Private Equity, per quanto riguarda i flussi diretti a progetti guidati da donne. Nel 2019 la percentuale era già salita al 20% (quindici volte di più del 2010), che rimane comunque un risultato piuttosto basso. Eppure, stando a un rapporto pubblicato nel 2018 dal Boston Consulting Group, le aziende gestite da donne rispetto a quelle amministrate da uomini fruttano più del doppio in termini di ricavi, pur ricevendo fondi pari a meno della metà di quelli erogati alla controparte.
Per ogni dollaro di finanziamento, le startup femminili generano settantotto centesimi di utile contro i trentuno di quelle fondate da uomini.
Pensate che è stata portata avanti un’analisi che ha visto coinvolte 350 compagnie, di cui 258 fondate da uomini e 92 fondate o co-fondate da donne. Il gruppo maschile, a fronte di una somma disponibile di 2.12 milioni di dollari, ha generato entrate pari a 662.000 dollari; il gruppo femminile invece, con “soli” 935.000 dollari è riuscito a fruttare 730.000 dollari. Insomma, da questi rilevamenti si può supporre che l’approccio del secondo insieme sia più efficace, nonostante i minori mezzi a disposizione. I dettagli li potete trovare nel link precedente.
Urbanistica e progettazione
Un altro aspetto che mi ha colpito non poco nel libro, riguarda quanto l’urbanistica e la progettazione dei servizi utili alla comunità (mobilità, pianificazione delle aree commerciali, localizzazione degli uffici rispetto agli alimentari), in alcune situazioni, abbiano risposto principalmente alle esigenze di una sola metà della popolazione (abbiamo approfondito l’argomento qualche giorno fa nell’articolo Urbanistica femminista. Differenza, non disuguaglianza nel vivere la città).
Questo tema si connette con il maggior tempo dedicato ad attività di cura familiari da parte delle donne (ossia il tempo speso nella gestione dellɜ bambinɜ, delle spese domestiche e quant’altro), che va a influire su un diverso modo di vivere gli spazi urbani. Tutto questo, alla radice, è la conseguenza di un problema macroscopico: la mancanza di dati disaggregati per sesso. Ovverosia, i numeri e le informazioni sulle preferenze/necessità femminili si avrebbero, tuttavia non vengono spesso distinte da quelle relative agli uomini, che quindi monopolizzano gli output delle analisi.
Non voglio aggiungere altro riguardo il contenuto del testo, per non etichettare questo articolo sotto la voce “Spoiler”!
Credo che sia importante che un argomento complesso come il Data Gender Gap venga sempre più conosciuto, studiato, ma soprattutto dibattuto.
E non solo da chi deve attuare le politiche, non solo da chi orchestra le amministrazioni, non solo da chi influenza l’imprinting aziendale di un settore. Ma anche da noi. Dalle persone comuni insomma: dalle coppiette, dallɜ studentɜ, dalle famiglie.
Potere decisionale
Un giorno, mentre mi trovavo ancora a metà del libro, ero sugli scogli di Quinto, di fronte a un mare autunnale gravido di sussurri. Era l’ora dell’alba, una di quelle mattine fredde che vengono ristorate da un thermos di tè bollente. Ero con due tocchi di focaccia, che attendevano di essere svelati. Ero con la mia ragazza.
Lì, mentre i primi raggi di sole facevano capolino sulle spalle di Punta Chiappa, facendoci strizzare gli occhi, ho tirato fuori con lei il discorso “Invisibili”. È stata una chiacchierata portentosa, dove gli spunti si intrecciavano seguendo traiettorie concentriche. Niente di oceanico, un discorso con un inizio e una fine, ma intenso.
Non si può delegare completamente un tema universale come quello della parità di genere a chi ha potere decisionale, se i numeri parlano di una presenza media di quote rosa nei parlamenti che raggiunge appena il 24,5 % a livello globale (dati relativi al 2019). C’è un disequilibrio evidente, e le risposte devono partire più in basso.
E al di là della retorica colpevolizzatrice atta a scindere le categorie, che mi vede distante, dobbiamo ragionare di insieme. Cresciamo in un sistema che va migliorato, lapalissiano. E visto che l’essere umano mantiene sempre una percentuale di utilitarismo intrinseco, mettiamola in questi termini: una maggiore inclusività dei segmenti femminili in ambito imprenditoriale, in ambito scientifico, in ambito accademico e in ambito politico, può apportare vantaggi per tuttɜ.
Non limitiamo la coscienza critica di un paese, sottraendo punti di vista che possono approfondire qualsiasi discorso.
Credo fortemente che per poter parlare di una problematica di questo livello, sia necessario averne una consapevolezza che vada al di là degli slogan. Il rischio altrimenti potrebbe essere quello di banalizzare l’argomento, o di svalutarlo rimanendo nel vago campo degli “ho sentito dire”.
Consiglio questo libro perché in sedici capitoli offre una panoramica ricca di concretezza sul punto, corredato di una bibliografia vastissima su cui poter eventualmente approfondire.
Io ho molta fiducia nelle generazioni under 30
Viviamo in un’epoca in cui con poco possiamo fare tanto. L’informazione viaggia a frequenze impensabili, bisogna trovare però chi possa trasmetterle in maniera affidabile. L’unico mio timore è la polarizzazione del dibattito: è importante educare i maschietti alla consapevolezza del Data Gender Gap, non tagliarli fuori perché “se non ce lo subiscono, non possono capire”.
In questo caso il rischio è che ci si concentri più sulla forma che sulla sostanza. Nonostante gli ottimi progressi registrati in molte parti del mondo negli ultimi duecento anni, riguardo la parità di genere, nuovi risultati devono essere raggiunti. E lo si può fare ragionando di sistema, partendo dalla concettualizzazione del problema.
La lettura del testo di Caroline Criado Perez, che ragiona secondo le coordinate del binarismo di genere, può essere un punto di partenza per numerose discussioni. Da lì si deve tuttavia ampliare il discorso anche ad un’inclusività che abbracci la comunità LGBTQ+. Solo allora si potrà crescere come società: quando le specialità singole e i diversi approcci alla vita delle persone potranno essere considerati un valore aggiunto e non un ostacolo.
Immagine di copertina:
wall:in media agency su opera di Ambra Castagnetti, KOLYSANKA.
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