Indoratori

FONDO BRUNO | Vico Indoratori: storia di antichi mestieri

Tutto torna. Vecchi ristoranti, antiche corporazioni, cibo e oro. Un viaggio tra i segreti di ieri e di oggi di un vicolo come tanti.
24 Agosto 2020
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Ancora troppo caldo per riportare alla luce le ricette del mio bisnonno. Troppo caldo e quindi poca voglia di mettermi ai fornelli per riproporle. Continuerò allora con il filone storico che avevo intrapreso la scorsa volta, alla scoperta di Vico Indoratori. (se vuoi saperne di più leggi l’articolo di wall:out FONDO BRUNO | Sante, stelle e signorine – Nel cuore del centro storico, vico Indoratori nasconde storie dove sacro e profano si mescolano, attraversando i secoli)

Oggi voglio parlare della storia che si cela dietro al nome di questo vicolo come tanti, ormai poco vissuto, che nel secondo dopoguerra ospitò il ristorante “La santa” di mio nonno Nino Bergese. Una storia condivisa con molti altri carruggi e che ci riporta ad una Genova antica, operosissima, pulsante di vita, affollata e rumorosa.

Le corporazioni medievali

Vico degli Indoratori si trova in quella porzione di centro storico, compresa tra Scurreria, Campetto e Caricamento, che nel Medioevo era sede di numerose botteghe artigiane: siamo nel Campus Fabrorum, la zona dei fabbri, dove erano presenti fino al ‘600 tutte quelle professionalità legate alla forgiatura di armature, scudi e armi.

È cosi che passeggiando ancora oggi tra i vicoli della zona scopriamo nomi evocativi delle antiche corporazioni di mestieri che proprio lì avevano la loro sede: orefici, scudai, indoratori… tutte arti legate sia alla fabbricazione di oggetti militari sia alla lavorazione e decorazione di oggetti d’arte. 

Le corporazioni medievali, o arti, erano categorie professionali costituite dall’insieme dei lavoratori e imprenditori di un determinato settore e iniziarono a diffondersi nell’età comunale soprattutto nelle città dell’Italia centro-settentrionale; conobbero il loro maggiore sviluppo tra Duecento e Trecento, andando poi a scomparire tra Sei e Settecento. 

Le corporazioni disciplinavano le strutture lavorative in ogni loro aspetto: regolamentavano la trasmissione del sapere tecnico attraverso l’apprendistato, ostacolavano la concorrenza, stabilivano prezzi, salari e condizioni di lavoro dei loro sottoposti ma allo stesso tempo fornivano un aspetto assistenziale, coordinando e sostenendo le singole botteghe.

Col passare del tempo, per esercitare un mestiere, l’iscrizione all’arte diventò obbligatoria e sempre più complicata per chi non faceva parte dei nuclei familiari già iscritti: le corporazioni si trasformarono così in gruppi privilegiati in cui il carattere di mobilità sociale si perse del tutto.

Alcune arti divennero ricche e potenti istituzioni cittadine tanto che, dalla seconda metà del Quattrocento, il crescente potere degli Stati cercò di limitarne i privilegi; tra Cinque e Seicento la struttura delle corporazioni iniziò ad apparire superata, troppo rigida, non in grado di tenere il passo delle nuove esigenze dell’industria e dei grandi traffici commerciali, andando così a scomparire. 

Indoratori
Targa di Vico degli Indoratori. Foto di Alessandra N. 

Ma torniamo a Vico degli Indoratori e a quell’antico mestiere che oggi si fa ricordare attraverso una targa

L’arte dell’indoratore, come suggerisce il nome, consisteva nell’applicazione di sottilissime lamine d’oro che andavano a impreziosire armature, scudi ma anche cornici, mobili, statue, dipinti lignei e arredi sacri.

Il mestiere del doratore era dunque strettamente collegato con quello del battiloro, colui che, come si può chiaramente intuire, batteva l’oro fino a ottenere la cosiddetta “foglia”, delicatissimo, quasi impalpabile strato d’oro zecchino.

La doratura era presente già in epoche antichissime: le grandi civiltà dell’Oriente come anche egizi, romani e greci ne facevano grande uso, ma è con il Medioevo e con il successivo Rinascimento che la tecnica della doratura a foglia d’oro si perfeziona, tanto che diventa un’arte indipendente, inserita in un floridissimo mercato.

I metodi di doratura a foglia d’oro consistevano nell’applicazione della sottile lamina su una superficie resa adesiva da una sostanza colloidale: la tecnica a guazzo, o a bolo, prevedeva la stesura sulla superficie di uno strato di gesso ben levigato e quindi di una o più mani di bolo armeno (particolare argilla ricca di ossido di ferro) mischiato ad un collante di origine animale, sul quale poi veniva applicata la foglia d’oro, successivamente brunita, ovvero lucidata; la tecnica a missione o a mordente, invece, consisteva nell’utilizzo di un adesivo oleo-resinoso piuttosto denso sul quale applicare direttamente la foglia d’oro.

La tecnica della doratura a guazzo, con l’uso del bolo come sottofondo, era sicuramente il procedimento che portava al miglior risultato perché garantiva una perfetta lucentezza dell’oro e, a seconda del colore del bolo utilizzato (rosso, giallo o nero), la sua tonalità risultava più o meno calda; con la tecnica a missione era invece impossibile effettuare la brunitura, data la mancanza del bolo sottostante, e ciò impediva così di ottenere l’effetto brillante dell’oro.

Queste stesse tecniche vengono utilizzate ancora oggi per i lavori artigianali di doratura.

La foglia d’oro

Ma la foglia d’oro è conosciuta ai giorni nostri perché si è inserita in nuovi mercati, dalla cosmesi alla cucina, diventando così anche un prezioso ornamento decorativo edibile.

Certamente è un “ingrediente” che richiama l’esclusività e la raffinatezza ma forse proprio per questo, a volte, viene utilizzato come se la sua quantità nel piatto accrescesse esponenzialmente la bellezza e ricchezza decorativa, scivolando invece così in un inutile eccesso.

Ma ciò che sembra essere un’appariscente moda dei giorni nostri ha invece radici che affondano nell’antico Oriente e nell’antico Egitto, fino a giungere poi al nostro Rinascimento, dove, per le occasioni più importanti, speciali pietanze e liquori venivano impreziositi con polvere, pagliuzze o sottili foglie d’oro. 

Solo recentemente l’alta cucina ha riscoperto l’utilizzo di questo prezioso ingrediente, soprattutto grazie allo chef Gualtiero Marchesi che negli anni ’80 ha proposto il suo risotto oro e zafferano, una rivisitazione del classico risotto alla milanese.

E a questo punto il cerchio si chiude: dai ricordi del ristorante del mio bisnonno Nino Bergese in Vico degli Indoratori abbiamo scoperto l’arte di un mestiere antico, basato sull’utilizzo di un metallo prezioso che oggi è ritornato a essere anche ingrediente decorativo nei piatti dell’alta cucina, pasticceria e cocktallerie.

Immagine di copertina:
wall:in media agency


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Nata a Milano nel 1991, da quasi venti anni vive a Genova, dove ora si dedica all’associazione culturale EdArte, di cui è co-fondatrice. Una formazione umanistica e un’indole creativa e curiosa la portano ad entusiasmarsi per l’arte, le diverse culture e cucine del mondo - che prova a reinterpretare ai fornelli. Ama stare in movimento, nel verde, in acqua o appesa a tessuti aerei; si diverte a creare gioielli, illustrazioni e oggetti di ogni genere.

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