Qualche settimana fa, mentre stavo finendo di scrivere l’articolo sul mio bisnonno Nino Bergese, quello della maionese che gli ha svoltato la vita, che poi proprio maionese non era, ma salsa olandese…ma che poi, se vi interessa, potete leggerlo qui su Wall:out, quindi già mi sto dilungando senza motivo.
Dicevo: scrivevo l’articolo e mi domandavo cose sul mio bisnonno, le più svariate, dalla sua passione per le automobili, a quanto buono doveva essere il suo risotto mantecato (tanto, se l’attrice Ira Furstenberg ogni giorno durante il Salone Nautico pranzava a ”La Santa” ordinando solo questo piatto – e a volte con bis!).
Ma soprattutto mi sono chiesta cosa gli piacesse mangiare di “normale” una volta tolto il grembiule da cuoco stellato. Anche perché fuori dalla cucina del suo ristornate non voleva sentire più parlare di fornelli, affidandosi dunque ai piatti della mia bisnonna, di sua figlia o di altri ristornati e trattorie. Come si dice a Genova, lui aveva già dato!
E allora mi chiedevo: gli saranno piaciute le polpette di carne con la cannella, il casalingo cavallo di battaglia di mia nonna? Avrà mai preparato i panini con il prosciutto cotto per una gita, una di quelle che faceva con la mia bisnonna portandola a spasso con l’amata auto? Oppure la polenta concia? (sì, ecco, non proprio un piatto immediatamente riconducibile alla quotidianità, ma io per la polenta ho una passione. Magari anche lui). Gli sarà piaciuto prendersi il gelato da passeggio o la focaccia col cappuccino al bar?
E poi ecco la fatidica domanda: ma la pizza?
Eh sì perché quella settimana, di pizza, tra asporto e al taglio, ne avevo mangiata parecchia e quindi insomma l’argomento mi girava in testa e in pancia; e poi eravamo appena entrati nella tanto agognata fase di riapertura (questioni di Covid) e iniziavano a sentirsi i primi discorsi di cene fuori, di come, dove e con chi. E cosa c’è di più scontato e bello di una pizza con amici, magari in spiaggia (con annesso metro e passa di distanza)?
E poi beh la pizza a me fa brillare gli occhi, insomma mi rende felice – soprattutto quella da asporto, buona, mangiata sul divano davanti ad un film. E se ci mettiamo pure che fuori piove si conclude il mio clichè preferito.
Ecco allora il perché di quella domanda trascendentale sul rapporto tra mio nonno Nino e la pizza, a cui purtroppo però mia madre ha dato una risposta totalmente inappagante.
Non so.
Ma di sicuro la sua passione era la focaccia al formaggio; spesso con la nonna Sandra andavano a Recco Da O Vittorio e da Manuelina!
Sì, bene, però mi sarebbe piaciuto un aneddoto, anche piccolo, su Bergese e la pizza, così da impacchettare un bel articolo. Niente.
Ma nel corso delle due settimane a venire sempre lei, la pizza – anche non volendo! – ha continuato ad essere protagonista assoluta dei miei pasti, tra pranzi estemporanei in focacceria, risoluzioni di cene in cui non avevo voglia di cucinare e persino una sfida tra amici col forno a legna!*
A quel punto era chiaro, quasi un segno: sì, dovevo parlare di pizza, anche senza i miei agognati aneddoti.
Dunque per prima cosa un po’ di storia
Tutto inizia nel Neolitico, ben 11 mila anni fa: nel Medio Oriente, grazie alla recente nascita dell’agricoltura e alla scoperta della cottura su pietra, si hanno i primi impasti cotti di cereali e legumi.
Nell’Antico Egitto viene scoperto un elemento fondamentale per la panificazione, il lievito (tanto che nasce la professione del fornaio); tra Greci e popoli mediterranei si arriva poi all’antica Roma con le focacce di farina di farro impastata con erbe aromatiche e sale, usate anche come contenitori per pietanze sugose.
L’utilizzo di queste schiacciate condite e aromatizzate a piacere si trovava in tutto il bacino del Mediterraneo ma è solo nel 1535 che nella “Descrittione dei luoghi antiqui di Napoli e del suo amenissimo distretto”, del letterato napoletano Benedetto Di Falco,troviamo associato il nome pizza alla focaccia napoletana, disco di impasto di frumento condito con aglio, strutto, sale grosso e erbe aromatiche, come il basilico.
Tra Sei e Settecento, in seguito alla scoperta dell’America, si diffonde finalmente in Italia l’uso del pomodoro, che verrà aggiunto così sulla pizza napoletana; mentre per la comparsa della mozzarella come tipico ingrediente si dovrà aspettare ancora il pieno ‘800, secolo in cui la pizza, come la conosciamo oggi, si diffonde capillarmente nel popolino di Napoli e in tutto il Meridione.
La pizza napoletana nasce dunque come cibo povero di strada: inizialmente era venduta dagli ambulanti in giro per la città su carretti muniti di particolari contenitori in rame con un doppiofondo riempito di brace per mantenere in caldo i prodotti appena sfornati e veniva servita piegata in quattro “a libretto”così che potesse rimanere calda all’interno, senza scottare le dita, e fosse comoda da mangiare anche in piedi.
Addirittura a Napoli era in uso una modalità di pagamento a credito che permetteva di mangiare la pizza subito e pagarla poi dopo otto giorni (come testimonia anche una scena del film di Vittorio de Sica “L’oro di Napoli” del 1954, confermando la longevità di questa pratica).
Con le migrazioni oltreoceano di fine Ottocento e dei primi del secolo la tradizione della pizza sbarca in America; ma è solo nel secondo dopoguerra, a seguito di un’altra ondata migratoria dal Meridione, che la pizza arriva anche nel Nord Italia, nelle città del triangolo industriale (Milano, Torino e Genova).
Negli anni Sessanta si assiste così ad una diffusione delle pizzerie lungo tutto lo stivale e nel giro di qualche decennio la pizza conquista il mondo.
Da semplice street food partenopeo con la pummarola ‘n goppa, la pizza è diventata, nel corso degli ultimi anni, anche base per rivisitazioni, sempre più ricche ed elaborate, che prevedono ingredienti ricercati, accostamenti particolari e impasti sempre più originali – o ripresi da antiche tradizioni dimenticate.
Nata come piatto povero, oggi la pizza è il cibo interclassista, interculturale e democratico per eccellenza – unisce anche indefessi mangiatori di carne e ultra vegani, con un’incredibile semplicità! –, così presente nelle nostre vite, amato e mangiato da tutti, così rappresentativo del nostro Paese e allo stesso tempo totalmente internazionale; un cibo attorno al quale si crea tra l’altro tutto un rituale intergenerazionale di condivisione e di socialità, unico nel suo genere.
E ora qualche curiosità
Quanta pizza si consuma in Italia?
Sono 128 mila le attività registrate in Italia che producono ben 8 milioni di pizze al giorno, pari a 3 miliardi l’anno.
(Centro studi del Cna agroalimentare, dati aggiornati al 31 marzo 2019)
Questioni di Covid:
Il settore della ristorazione, come tanti altri, è stato segnato fortemente dall’emergenza sanitaria ma alcune realtà da sempre legate all’asporto e consegna a domicilio (o che hanno potuto adeguarsi a questi tipi di vendita) sono riuscite a continuare l’attività, anche nelle settimane di più stretto lockdown. Secondo i dati dell’ANSA, in questo periodo in Italia la pizza si riconferma al primo posto come piatto da asporto più ordinato.
A Genova durante l’emergenza, la pizza, che nell’ultimo periodo pre-Covid era stata superata dalla moda del poke (la ciotola hawaiana), torna al primo posto.
Riconoscimenti istituzionali:
il 17 Gennaio si celebra la giornata mondiale della pizza, istituita nel 2017, anno nel quale l’arte tradizionale del pizzaiolo napoletano è stata riconosciuta dall’Unesco patrimonio culturale immateriale dell’umanità. La scelta del 17 Gennaio non è casuale perché coincide con la celebrazione di Sant’Antonio Abate, protettore di animali e fornai: in passato era tradizione che in questo giorno le famiglie dei pizzaioli chiudessero le loro attività e si radunassero per accendere un fuoco di ringraziamento al loro Santo protettore.
La pizzeria più antica d’Italia?
È la napoletana Antica Pizzeria Port’Alba, fondata nel 1738. Agli inizi era un semplice forno costruito in pietra lavica vesuviana che consegnava ai suoi venditori ambulanti le pizze appena sfornate: già nel 1796, visto l’immediato successo dell’attività, il tribunale borbonico appose una targa di fronte all’ingresso, visibile ancora oggi, in cui veniva intimata una sanzione pecuniaria nel caso in cui il commercio di generi alimentari avesse creato problemi al passaggio di pedoni e carrozze. Nel 1830 il locale amplia e modifica la sua iniziale struttura con posti a sedere e salette superiori, assumendo l’aspetto della pizzeria odierna.
Tre pizzerie da provare a Genova
• La pizzeria Al Pisacane, alla Foce: un’istituzione! La fila fuori dal locale conferma la bontà delle sue pizze, ricche di ingredienti e accostamenti ricercati, ma ti dà anche la possibilità, nell’attesa, di berti una birra e fare due chiacchiere magari proprio con Aldo, il proprietario, che esce ed entra di continuo per avvertire i clienti che è giunto il loro turno. Una sua succursale, in zona più centrale, è La piazzetta del Pisacane, un accogliente locale proprio accanto a Piazza Marsala.
• Se si vuole trovare ristoro, a due passi dal centro storico (due passi in salita – ma niente paura perché la funicolare Sant’Anna di piazza Portello arriva proprio lì accanto!) si trova l’Antica Vaccheria, un locale che nei primi del ‘900 ospitava la rivendita del latte della Vaccheria Urbana e dove oggi si gustano, all’ombra di un verde cortile, delle fragranti e gustose pinse, davvero buone!
• Un ottimo rapporto qualità prezzo si può trovare alla pizzeria Molo Modo 21, vicino al Porto Antico: il locale è animatissimo e tappezzato con le tipiche tovagliette di carta paglia con i disegni a penna degli avventori più creativi. Se hai voglia di mangiare una buona pizza con un boccale di birra ma ti sono rimasti nel portafoglio solo dieci euro è il locale giusto! Ti avanzerà anche qualcosa per il gelato o un amaro (a seconda dei gusti!).
(Questioni di Covid: tutti i locali sono di nuovo aperti e garantiscono le misure di sicurezza e di distanziamento – i coperti sono infatti dimezzati. C’è la possibilità di prenotare un tavolo e di ordinare da asporto, per maggiori informazioni controllare i link ai siti web.)
Ricetta
* Tre tipi di impasti per fare la pizza a casa
A proposito della sfida di pizza a cui ho assistito settimana scorsa, ho deciso di darvi le ricette dei tre impasti in gara (un ringraziamento speciale ai concorrenti, amici e “mastri panificatori” Gio, Ema e Lillo). Beh, con la cottura in forno a legna si vince facile, ma anche nel più banale forno di casa il figurone è assicurato!
Impasto misto integrale di Gio
125 gr di farina bio di tipo due
125 gr di farina integrale
125 gr di farina di farro integrale
125 gr di farina di Kamut
300 ml di acqua
35 gr di lievito di pasta madre essiccata
sale e olio quanto basta
Impasto allo yogurt di Ema
250 gr di farina di farro integrale
250 gr di farina di Kamut
300 gr di yogurt greco
30 gr di lievito madre
sale, acqua e olio quanto basta
Questi due impasti vanno lasciati lievitare al caldo per almeno un’ora all’interno di una bacinella infarinata, coperti da un canovaccio inumidito (potete mettere la bacinella in forno spento ma con la luce accesa, così l’interno raggiungerà la temperatura di 26°-28°, ideale per la lievitazione).
Impasto 24h di lievitazione di Lillo
470 gr di farina
300 gr di acqua tiepida
0,25 gr di lievito di birra fresco
15 gr di sale
Questo impasto va lasciato lievitare per 18 ore all’interno di una grande bacinella oliata e coperta da pellicola. Dopo questa prima lievitazione preparare i panetti, lavorarli un pochino e lasciarli lievitare per altre 6 ore fino all’infornata.
Immagine di copertina:
wall:in media agency
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Solo una curiosità. Quando si parla di pizza ci si riferisce solo alla pasta? Ormai ci sono tante di quelle pizze con tante di quelle varianti nel topping che, a volte, sembra difficile riconoscere una parentela con quella napoletana. C’è una mia amica americana, ad esempio, che odia la pizza, dice che fa schifo. Quando le ho esposto le mie perplessità, aggiungendo che piace in tutto il mondo, mi ha risposto che se assaggiassi la pizza che fanno negli States la troverei anch’io disgustosa. Mi è capitato una volta di vedere un programma americano in cui si spostavano per ristoranti ,facendo vedere le specialità di ognuno, e quando ho visto come preparavano quella da loro definita pizza mi sono trovato perfettamente d’accordo con la mia amica. PS : Complimenti per l’articolo, è stato scritto, sia nella forma che nel contenuto, in modo tale che mi è parso di vedere l’espressione compiaciuta e partecipe del suo viso e, quasi quasi, agli angoli della bocca….sì, insomma, una dimostrazione del riflesso di Pavlov. 😀
Buongiorno e grazie per il suo commento, il primo che ricevo (sono emozionata!). La ringrazio anche per i complimenti, mi fa piacere abbia individuato
tra le righe il mio slancio istintivo nei confronti di questo argomento☺️.
Per rispondere alla sua domanda, nell’articolo parlo in generale della pizza “all’italiana” che comprende dunque varie tipologie, dalla classica napoletana a quella più sottile, fino alla pizza al taglio di panetteria.
Di pizza americana non me ne intendo, per fortuna – a quanto pare! ? Ho voluto soltanto dare un cenno storico riguardo all’approdo della pizza negli States.