Fine luglio, il caldo si fa sentire, ma questa mattina piove sulle nostre teste, mentre percorriamo le vie del mercato di Ventimiglia. Progetto 20k, una rete di solidarietà e aiuto concreto per la libertà di movimento, ha lanciato una manifestazione per sensibilizzare e far sentire il proprio dissenso.
«Solidarité avec les sans-papiers» «no borders stop deportation» alcuni dei cori che si alzano dai manifestanti.
Il corteo si ferma davanti alla stazione, dove i trafficanti intercettano le persone in transito, poi davanti al comune e alla centrale della polizia. Non basterà un corteo a cambiare le cose, ma portare alla luce le contraddizioni è il primo passo per affrontarle.
A Ventimiglia, un paese della riviera ligure di ponente proprio a ridosso della frontiera francese, alcune persone vivono sotto un ponte nell’attesa di tentare la traversata del confine (articolo di wall:out Da Herat a Ventimiglia. Il cammino incessante dei profughi afgani). Riposano buttati su cartoni e stracci, giocano a calcio in un parcheggio assolato, qualcuno chiacchiera allegramente, altri cercano il generatore, portato dai solidali per caricare il telefono, unico filo che li tiene legati a casa.
Una bici scassata si avvicina traballante lungo la strada. Il centro del paese è a poche centinaia di metri, hotel e ristoranti con i tavolini pieni di turisti, macchine di lusso, il numero di stranieri è alto anche li, ma non crea nessuno scalpore, questi vanno bene, portano soldi e sono bianchi.
La distanza tra le due realtà sembra incolmabile, eppure siamo sempre in Italia, nello stesso paesino. Neanche ventimila abitanti e due mondi.
Un francese impiega circa una decina di minuti, dal centro di Ventimiglia per raggiungere in auto la frontiera. Se non c’è traffico, in pochi minuti è dall’altra parte. Lungo la frontiera i turisti camminano sul marciapiede in costume da bagno e ciabatte, con l’ombrellone sottobraccio e l’aria soddisfatta di chi si è fatto una lunga e rilassante giornata di mare. Non vengono neanche fermati dalla polizia, non ce n’è motivo, loro possono passare.
Chi è in transito, invece, ragazzi che viaggiano per mesi, anni, per arrivare fino in Europa, ha varie opzioni
Nessuna di queste è semplice, nessuna di queste è priva di rischi. Per passare a volte è necessario tentare molte volte, c’è chi rimane bloccato per mesi, chi viene preso, chi viene tenuto per giorni nei container della polizia di confine, c’è chi muore nel disperato tentativo di non rinunciare alla propria vita.
Ventimiglia è un luogo simbolo della politica europea, che investe enormi somme di denaro, per bloccare la libera circolazione delle persone sul suolo del continente con muri, migliaia di agenti, recinzioni, filo spinato e molte altre pratiche, tutte mirate ad impedire quello che è un diritto fondamentale di ogni abitante di questa terra, ed è invece riservato ad una ristretta cerchia di popolazione, individuata su criteri puramente razzisti ed economici.
Ad oggi sono 16 i muri che dividono i confini interni od esterni dell’Unione europea, per un totale di più di 1400 km di barriere.
Ventimiglia è un luogo simbolo dell’omertà di chi vive voltando lo sguardo ai migranti, nascosti tra i piloni in cemento armato di una superstrada, tenendo ben stretti i propri diritti e privilegi per paura che la condivisione possa portarglieli via.
Il parlamento italiano ha votato a favore dei rifinanziamenti per la guardia costiera libica, nessun passo in avanti è stato fatto per quanto riguarda l’abolizione del regolamento di Dublino, anzi, l’Unione Europea continua a finanziare anche la Turchia per tenere chiusi i confini esterni e militarizza sempre di più le frontiere, anche interne, strategiche per ostacolare i flussi migratori. Ma, soprattutto, in tutto il tessuto sociale europeo una forte corrente di politicanti di destra, intollerante e xenofoba, si oppone all’accoglienza di migranti sul suolo dell’UE e all’inclusione di questi nella società.
La situazione migratoria è peggiorata rispetto a vent’anni fa, l’intolleranza del primo mondo è aumentata con le politiche di estrema destra, cavalcate da opportunisti di turno per orientare le paure collettive.
Raccogliere consensi puntando il dito su barconi pieni solo di disperazione e speranza, è risultata una strategia vincente. Gli stati rispondono con la violenza a queste invasioni bianche, noi cittadini dobbiamo rispondere con i fatti a questi stati carnefici.
Dare vita a quartieri inclusivi partendo dai vicini di casa, pensare a politiche interculturali costruite con tutte e tutti coloro che abitano le nostre città, aprendoci ad accogliere altre culture non come stravaganti piatti esotici, ma come prospettive da cui intendere la vita, da cui imparare e da rispettare attivamente, impegnandosi perché i bisogni di tutti vengano soddisfatti sempre e in ogni circostanza, al confine come nei centri urbani.
Alla luce di questa nota e drammatica situazione, per realizzare concretamente nuove forme di educazione interculturale, prima di tutto, è necessario smetterla di riempirsi la bocca di retorica, disconoscere l’operato dello stato sia lungo i confini, sia nelle città, sia nelle scuole; dare voce ai solidali, a chi lotta per i diritti di tutti.
Pretendere da chi ci rappresenta un radicale cambiamento, un impegno reale da questi fantomatici politici. Impegnarsi realmente come cittadini, non accettare passivamente politiche xenofobe e ingiuste, manifestare il dissenso e abbattere qualsiasi muro reale o solo percepito che si viene a creare.
Deve essere chiaro. La risposta non arriverà dalle istituzioni
In Italia non solo la politica migratoria è stata e continua a essere ostile ai nuovi arrivi, ma la pianificazione urbana e la gestione del sistema scolastico, che sono due elementi fondamentali per orientare la percezione sociale della realtà, vengono sfruttati per ghettizzare le diverse culture che abitano il suolo della penisola.
Dare vita ad un contesto interculturale, nel quale ogni individuo possa trovare lo spazio necessario a vivere e crescere, non può comportare solo la creazione di quello spazio fisico, necessario ai nuovi per insediarsi, come le case popolari, enormi palazzoni pieni di minuscoli appartamenti, interi nuovi quartieri. Tale spazio fisico, viene generalmente riempito molto in fretta, da individui di bassa estrazione sociale, spesso in difficoltà economica, spesso stranieri, attirati dal costo minore della vita e, soprattutto, degli affitti.
Essi tendono a formare gruppi su base etnica per fronteggiare le difficoltà, dando vita a realtà organizzate e solidali, ma spesso chiuse su loro stesse. Un principio naturale, più persone che condividono uno stile di vita, una cucina tipica, una religione, più in generale la stessa cultura si organizzano su base comune, quella che però rimane la criticità più evidente di questa situazione è proprio la tendenza alla formazione di compartimenti stagni tra le singole realtà, che impediscono quelle forme di interazione, come lo scambio di informazioni, la condivisione e la comprensione dell’altro.
Le distanze, invece, aumentano quel senso di disagio e paura che quando si ha che fare con qualcosa di estraneo, ci rende prevenuti e ostili. Sentimenti che dovremmo impegnarci tutti a superare attivamente.
Nelle città, dove la vita si sviluppa ben organizzata, concentrandosi in spazi ben definiti come la casa, l’ambiente di lavoro, la palestra e così via, muovendosi in una giornata estiva per le vie di un qualsiasi centro, stupisce sempre, la sproporzione tra stranieri e italiani che attraversano le strade. Ma questo è solo un sintomo di due mondi che molto spesso si allontanano.
Infatti, sono perlopiù gli stranieri, ad occupare gli spazi pubblici urbani, sviluppando le loro relazioni primarie nelle strade di quartiere; sono multietnici i gruppi di bambini che giocano nelle piazze; ammassati sui mezzi pubblici si possono incontrare più nazionalità che posti a sedere, mentre coloro che si possono permettere di circolare comodamente in maniera autonoma, sono in maggioranza italiani o turisti.
Questa continua presenza nei luoghi pubblici rende gli stranieri più visibili e crea quella percezione diffusa, che, nel linguaggio della politica xenofoba, diventa la fantomatica “invasione”.
Queste comunità, che si creano e si compongono di relazioni, sono reali, rinforzate ogni giorno da esperienze difficili che vengono condivise.
Dall’altra parte, nella stessa società troviamo relazioni più digitali che concrete, senz’altro superficiali, che vacillano sotto le forti spinte individualistiche. I nuclei familiari hanno perso il loro ruolo centrale nella vita della popolazione, ognuno tende a ritirarsi nelle proprie routine.
Invertire la rotta! Abitare insieme la città, le sue vie, i suoi spazi, abitare insieme la scuola, le sue materie, le sue classi! Questi i presupposti fondamentali per dare vita a un paese interculturale, per lottare attivamente contro una logica pensata per rendere sistemico questo problema. Per ridare vita ad una politica che rappresenti ogni essere umano che abita questo paese, che non concepisca le migrazioni come un problema e capace nel concreto di essere uno strumento di incontro e dialogo tra la gente, tutta la gente, che vive insieme.
Immagine di copertina:
Manifestazione Noborder organizzata da Progetto 20K a Ventimiglia
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