Esiste un luogo, a Genova, che rappresenta alla perfezione la velleità del genere umano; ma si potrebbe anche essere più coraggiosi, e chiamarla presunzione.
C’è stato un tempo in cui l’umanità pensava di poter dominare la natura e piegarla alla propria capacità di calcolo e di previsione. Era il Positivismo di Darwin, di Lombroso, della burocrazia.
Era il periodo in cui si immaginava di poter costruire, come fosse una città, un mondo a misura degli esseri umani (ma di tutti gli esseri umani?) e delle loro esigenze (vedasi quesito precedente); il problema, forse, è che si è caduti nella golosa idea di accomodarsi nell’equivalenza: calcolabilità = semplificazione (fonte Scientificando).
Per fortuna – anche se non è corretto giudicare – due impalpabili scoperte hanno mostrato all’uomo Positivista che non è possibile determinare una verità assoluta – come sosteneva Heisenberg – e che dietro l’illusione del dominio vi è la severa relatività del genere umano, come ci ha insegnato Einstein): la complessità non si può dominare, al massimo sperare di governarla, come una barca a vela.
Nel medesimo errore – se non si vuole giudicare, si può chiamare trappola – è caduta Genova, quando, nell’ebbrezza post – bellica del secondo dopoguerra, ha deciso di abbattere completamente uno dei primi quartieri della città, il cui nome rimanda all’origine più remota della nostra civiltà moderna, a colei che creò il Creatore: via Madre di Dio.
Quale fu la ragione?
La previsione di un milione di abitanti entro la fine del secolo e il desiderio di un accesso diretto al mare dal centro economico e commerciale della città.
Rispetto alla prima previsione, noi italiani sappiamo bene che chi fa promesse con unità di misura di un milione poi non le mantiene (anche se questo non pare comporti un calo dei consensi).
Per contro, oggi in un attimo si passa dall’alpina piazza Dante alla mediterranea corso Aurelio Saffi. Promessa mantenuta.
E se Genova, dopo essere arrivata a una popolazione massima di seicentomila abitanti negli anni ’90 (pag. 24), oggi si vede svuotata dei suoi giovani figli a favore di molti turisti – che però consumano, non popolano – forse qualche rimpianto nell’aver divelto il grembo ferito (dalle bombe della seconda guerra mondiale) della Madre di Dio, dovremmo nutrirlo.
Forse perché è tipico dei governanti liguri preferire il costruire al manutenere.
Forse perché il rammarico dei benestanti attiva la loro contagiosa lamentela, mentre gli ultimi si ritrovano a doversi scusare per come manifestano la propria incompresa rabbia.
Forse, semplicemente, perché dentro al conflitto nasce il consenso più semplice e immediato.
Di quella ferita di pietra, al di là dei moventi, oggi resta una cicatrice vuota. Materiale a rischio necrosi; tra batteri, virus e parassiti.
Nonostante la parte visiva sia quella che maggiormente occupa i sensi di chi osserva, è la consistenza delle superfici che rende più intensa l’esperienza del Centro dei Liguri come luogo, sorto in violenta sostituzione all’antico quartiere.
Teoricamente si tratta di civici che appartengono al poeta con la D maiuscola ma nella pratica sono multilivelli di incroci, di scale mobili, di vuoti e di balconate, di cascate e di nicchie in cemento grezzo.
Parrebbe un castello, con tanto di guardiani; invece è un complesso di uffici e, quelli armati, sono guardie giurate. Molte guardie e molto annoiate.
Il Centro dei Liguri, un supercondominio di uffici, di parcheggi (e di qualche attività commerciale), sorto sulle ceneri del più popoloso e popolare quartiere di Genova – via Madre di Dio, appunto – crea una grande conca al suo centro, un vuoto che, da un lato, spinge contro un muraglione (sul quale i Lavatoi dei Servi sono oggi riparo estivo dei senza fissa dimora), mentre dall’altro innalza edifici di venti e più piani, che in fila formano un arco stretto come l’angolo più alto della lettera D, maiuscola, nelle scritte di epoca fascista.
In effetti, una delle torri, quella a campanile, è un famoso esempio di razionalismo italiano dell’architetto Piacentini: Torre Piacentini, costruita tra il 1935 e il 1940, fu uno dei primi grattacieli in Europa e avanguardia di ciò che sarebbe accaduto alla vecchia borgata.
È questo vuoto l’asse di rotazione del Centro dei Liguri: perché di giorno ribolle motorini parcheggiati e numerosissimi frenetici via-vai: di ruote, di cani, di passi e di soldatini.
La sera, invece, quando gli impiegati spengono le luci e, quelle accese, sono solo le finestre di manager e dirigenti, il vuoto diventa mercato di affari, prevalentemente clandestini.
Clandestini come il cemento che si è sostituito alla pietra della borgata, clandestino come l’acqua che corre invisibile verso il mare (il Rio Torbido) e il cui suono, oggi, è simulato dal traffico del sottopasso; clandestini come i rami e le radici che mangiano gli angoli più occulti e abbandonati delle incrostazioni di calcestruzzo. Clandestini (o forse solo stranieri rispetto alla norma) come i suoi abitanti.
Ragazzini che lavorano su sigarette estremamente serie, ragazzine che si prostituiscono per una fumata argentata, politicanti che predano compromessi di potere. Persone senza fissa dimora che fanno di tutto questo ciò che i cittadini chiamano casa.
Ci si domanda, a questo punto, quale sia il materiale con cui è fatto, davvero, un permesso di soggiorno.
Basterebbe fermarsi accanto al guscio delle scale mobili al terzo piano del supercondominio, la sera, e osservare, come in un safari, l’incontro che avviene tra la pancia e la testa del mondo: chi detiene il potere sfila silenzioso, nascosto dietro all’ultimo modello di telefono intelligente (almeno quello), tra la gente che, qualche ora dopo, diverrà il soggetto dei loro post elettorali.
E quella gente, coperta dal silenzio di chi non vuol vedere il vero, a far ribollire il sangue; per morire, sì, un poco tutti i giorni, ma con un residuo di sorriso. Ogni giorno un po’ meno bianco.
La vulgata dice che pancia e testa sono i due cervelli.
Forse un giorno si capirà che il paradigma della nostra società non è altro che un reflusso trascurato.
I più giovani trovano rifugio negli anfratti dei Centro dei Liguri per conoscere il mondo, per dichiarare i propri amori, per fumare le prime sigarette distanti da occhi sorveglianti.
È un luogo che ringiovanisce quanto più imbrunisce e luccica vecchiume, nell’illusione di non avere ombra, in ogni suo mezzogiorno.
Se c’è una cosa che non manca mai nel Centro dei Liguri, oltre alle persone, è la musica: tutto il giorno pulsa il cuore dei diavoli. È il ritmo infinito delle scale mobili. E, come un soffio in quei ventricoli, le spazzole di plastica delle scale mobili strusciano incessantemente e si mischiano ai fumi e alle casse dei ragazzini che spingono trap.
Quando gli alienati scendono verso i parcheggi per tornare a casa, qualcuno mette in pausa la riproduzione musicale sul proprio telefono intelligente (almeno quello) e ascolta la colonna sonora perfetta che descrive il Centro del Liguri come sineddoche geografica del mondo occidentale: droga, soldi e sesso.
Un trittico di pala d’altare, invisibile tra i gradini in cemento. E magari, in un qualche senso, quel luogo una chiesa.
La chiesa di chi resta dopo che muore la madre di dio.
Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su foto di Mattia B.
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