Il giorno in cui sto scrivendo è il 22 febbraio 2021. A oggi in Italia, sono stati undici i femminicidi compiuti dall’inizio dell’anno, uno ogni settimana. L’ultimo è quello di Clara Ceccarelli, la commerciante genovese ammazzata dall’ex compagno, ma sono sicura che da qui a quando verrà pubblicato questo pezzo i numeri saranno già aumentati. Undici femminicidi nell’arco di un mese e mezzo. Per non parlare poi dei casi di stupro e violenza che ci vengono raccontati dai giornali e di tutti quelli che sui giornali non ci arrivano neppure.
Violenza. Femminicidio. Stupro. Molestie. Aggressione sessuale.
Tutti termini che si sono sentiti abbastanza spesso ultimamente per via del forte incremento delle violenze dall’inizio della pandemia. <<Violentate dall’amichetto>>, <<Uccisa per troppo amore>>, <<Il gigante buono uccide>>.
Questi e tanti altri (una raccolta sommaria a opera di Benedetta Geddo QUI) i titoli che i giornali ci hanno presentato per parlare di casi di violenza contro le donne. Una violenza nella violenza che i media continuano a perpetrare, senza pagarne alcuna conseguenza. Al di là dell’incapacità e dell’ignoranza di moltɜ giornalistɜ nel fare il loro lavoro, la cosa che preoccupa è un’altra. Ossia il fatto che questi titoli non sono nient’altro che i prodotti ultimi di una cultura che nel 2021 rimane ancorata a rappresentazioni di ruoli di genere specifiche e parziali.
Una violenza che è figlia delle narrazioni che riescono tranquillamente a trovare spazio nei divani dei salotti televisivi, che ne favoriscono una socializzazione molto vasta. Giornali, programmi tv, pubblicità, film, serie tv ci bombardano continuamente con rappresentazioni di donne e uomini che corrispondono a una serie di criteri ben specifici.
I sottoprodotti di questa cultura hanno nomi che iniziano a circolare con sempre maggiore insistenza, come il cat calling, il revenge porn e il victim blaming, tutti accomunati dall’idea che l’uomo possa avere il controllo completo della donna, che lei lo voglia oppure no, che sia una fidanzata o una ragazza che sta passando per strada. L’obiettivo è sempre lo stesso: esercitare il proprio ruolo di maschio etero-normato dimostrando di far parte di quello schema che tanto viene promosso dalla cultura dello stupro.
All’interno di questo schema l’atto di violenza fisica non è altro che il vertice di una piramide composta da tantissime altre forme più o meno gravi di violenza che contribuiscono ulteriormente a rafforzare l’immaginario di ruoli genere specifici ed esclusivi.
La conseguenza di questo, dunque, quale sarebbe?
Che siccome l’uomo – si sa – è predatore, è debole e cede di fronte alla carne, allora sono le donne a dover stare attente, a dover prendere provvedimenti.
Nel promuovere questo tipo di cultura, i media hanno una responsabilità immensa che è difficile quantificare e da cui deriva una vittimizzazione ulteriore di donne già vittime di violenza. Nel tentativo di rappresentare una violenza sistemica in modo episodico, la maggior parte delle narrazioni si sofferma sui dettagli più scabrosi della storia al fine di vendere di più e con l’effetto di formulare un’apologia del carnefice.
Per cui l’imprenditore milanese colpevole di aver seviziato una ragazza per 24 ore diventa “un vulcano di idee e di progetti” e l’uomo che “uccide la compagna perché lo aveva lasciato”, diventa la vittima col cuore spezzato che ha agito in preda a un raptus di follia. Un’operazione in cui la violenza viene minimizzata di fronte alla sofferenza del carnefice e in cui la vittima viene descritta come troppo indipendente, ubriaca o disinibita. Un meccanismo narrativo che non può che portare lɜ più ingenuɜ a disconoscere le scelte delle vittime fino a negarne la legittimità, arrivando addirittura a giustificare l’azione violenta.
Il fatto di continuare a narrare i femminicidi come episodi singoli e isolati, in cui l’uomo è improvvisamente impazzito, o è stato preso da una passione incontrollata, fa perdere completamente di vista il problema principale.
Stiamo parlando di una violenza che è sistemica, che fa parte del contesto in cui viviamo e che è frutto di una cultura che va ben oltre la violenza fisica e che viene continuamente promossa anche dai media.
Infine, abbiamo l’ultimo frutto di questa narrazione tossica
Quello che vuole negare la possibilità di uscire da questo schema e che si traduce nella maggior parte dei casi nella fantomatica frase “non si può più dire nulla”.
Non si può più dire nulla perché nel 2021 c’è qualcunə che osa far notare che queste narrazioni non sono comportamenti isolati, ma fanno parte di un sistema più ampio. La conseguenza è che chiunque osi discostarsi da questo schema viene tacciato di far parte dell’esercito dellɜ perbenistɜ politically correct o di difendere posizioni ideologiche a loro volta discriminatorie.
Ci viene dunque insegnato che se ci incazziamo perché un tizio ci fa commenti inopportuni per strada “ce la siamo presa troppo”. Se facciamo notare l’importanza di un linguaggio più inclusivo (articolo di wall:out Linguaggio non sessista e linguaggio inclusivo) allora ci viene detto che stiamo perdendo tempo e che i “veri problemi sono altri”. Si parla addirittura di femminismo ideologico o di nazifemminismo (su questa tematica si è espressa recentemente Giulia Blasi su Valigia Blu).
Perché nonostante la nostra società sia costruita a immagine e somiglianza del maschio-bianco-abile-eterosessuale-cisgender, alcuni membri di questa categoria riescono comunque a sentirsi discriminati. Poverini.
Rendersi conto di incarnare una serie di privilegi e di cosa questo comporti d’altronde non è cosa da poco. Meglio sminuire il valore delle lotte femministe riducendole a un’apologia dell’asterisco e a un branco di donne isteriche e urlanti. Non si può più dire nulla, insomma, perché per decenni abbiamo seguito uno schema narrativo volto a conservare ruoli ben precisi. Adesso che ottengono una certa eco i movimenti e le posizioni che si permettono di far notare la varietà delle narrazioni possibili, chi ha sempre esercitato il dominio grazie al tacito placet della società si sente sotto attacco.
Fino a quando ci si continuerà a nascondere dietro all’idea per cui “non tutti gli uomini sono così”, non sarà possibile superare questa narrazione.
Il punto non è che tutti gli uomini sono violenti. Il punto è che molti lo sono. Il punto non è che le donne devono odiare gli uomini. Il punto è che non possono più essere educate ad avere paura e a difendersi prendendo ogni possibile accortezza per evitare di passare per quelle che se la sono andata a cercare. Il punto non è che gli uomini fanno tutti schifo, ma che per colpa della cultura in cui viviamo TUTTE le donne quando tornano a casa la sera tirano fuori le chiavi a 200 metri dal portone. Il punto è che i media non sono un’entità di per sé buona o cattiva, ma uno specchio che riflette il suo pubblico.
Immagine di copertina:
wall:in media agency su opera di Silvia Mazzella, Parlami di lei. Lei è perfetta, ma non sei tu.
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