Abbiamo incontrato Serena Bertolucci, direttore di Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura, divenuta negli ultimi anni importante protagonista della scena culturale della nostra città. La dottoressa Bertolucci, con idee chiare e precise, ci accompagna nel suo mondo, discutendo di mostre, musei, curatori, visitatori e giovani studiosi.
Una chiacchierata a 360 gradi per fare il punto sul mondo “post-Covid”, che ha obbligato a ripensare metodi e strategie culturali. Il passato, il presente e il futuro visto con gli occhi della #dogaressafelice.
Quando Serena Bertolucci ha deciso di diventare storica dell’arte?
In realtà ho sempre voluto fare il comandante di nave e credo che in un certo senso lo stia facendo, non credi? Ai miei tempi non si poteva fare, non c’erano donne comandante. Iniziai quindi a frequentare il liceo linguistico, dove ho incominciato a ragionare davvero sulla storia dell’arte. Avevo un professore molto esigente, che al primo compito mi diede quattro. Allora, un po’ per senso di rivalsa, ho cominciato a studiarla sul serio, e piano piano è diventata la mia passione. Interesse che poi si è andato a innestare su un discorso più ampio, che mi ha sempre interessato, che è quello che riguarda il sociale, la condivisione, l’uguaglianza e la partecipazione.
Coniugando le cose, è saltata fuori questa creatura che è mezza storica dell’arte e mezza, non so, non so che cos’altro sono.
Ma quindi esistono davvero gli storici dell’arte oggi?
Questa è una questione seria su cui mi piacerebbe ragionare con voi giovani. Le nostre professionalità sono ancora alla ricerca di una forma e una formazione specialistica. Siamo abituati a ragionare con il solito criterio dello storico dell’arte ma abbiamo capito che, in quest’epoca, lo storico dell’arte è molte cose, molte altre cose. Il nostro sapere può essere declinato in varie forme e tutte contribuiscono a tenere accesa la fiamma della cultura.
Io credo che non esista uno storico dell’arte, ma esistono tanti modi per esserlo: lo stiamo imparando. Così come non esiste una cultura, e anche quello lo stiamo imparando.
Ci siamo conosciuti a Palazzo Reale, dove tutti ti riconoscono l’ottimo lavoro. Però: c’è qualcosa che ti rimproveri, con il senno di poi?
Oh, sì, mi rimprovero sempre un sacco di cose. Sono sempre in fase di discussione. Di quel periodo mi rimprovero di aver lasciato a metà il lavoro legato al quartiere di Prè. Io ci credevo tantissimo, e mi sembra che adesso sia un progetto addormentato.
Io sono fortemente convinta che per Palazzo Reale, Prè sia un’opportunità. È l’opportunità di Palazzo Reale, è lo sbocco verso il mare, verso quella parte di città.
Quella è forse la cosa che mi rimprovero di più.
Da #direttorefelice a #dogaressafelice. Ci racconti il tuo Palazzo Ducale?
Palazzo Ducale è una sfida impegnativa. Come me lo immagino? Mi immagino un luogo che sia effettivamente il cuore pulsante della cultura cittadina. Questo vuol dire accoglienza, condivisione di spazi e forti legami con il territorio. Io vorrei tanto che Palazzo Ducale, nell’immaginazione di tutti, finisse di essere uno spazio ma diventasse un luogo.
Questa è la missione che voglio portare a termine. Per questo stiamo dando il via a una serie di nuovi progetti, come ad esempio la valorizzazione degli spazi storici del palazzo. Questo è come vorrei fosse Palazzo Ducale: un luogo di cultura.
Purtroppo, abbiamo affrontato una nuova chiusura dei luoghi di cultura. Palazzo Ducale aveva appena inaugurato la mostra dedicata a Michelangelo. Come mai la scelta di aprire una mostra così importante, con il rischio di chiusura?
Era un segno determinate. La riapertura dei luoghi di cultura è importantissima. Il segno di riaprire i luoghi della cultura, se noi crediamo che questi siano un servizio essenziale, è fondamentale. Dovevamo farlo. Le mostre devono essere un fenomeno principalmente culturale, non economico. Che poi ci sia anche quello va bene. Una mostra deve essere un segno di cultura vero e, in quel momento, la mostra dedicata a Michelangelo, aveva in sé il segno della rinascita.
Abbiamo una legge che ci dice che i musei sono servizi essenziali, benissimo, se teniamo chiusi i musei vuol dire che non ci crediamo. È semplice. Se abbiamo quel ruolo, vuol dire che lo dobbiamo svolgere fino in fondo.
Ma quindi perché si è proceduto con le chiusure indiscriminate dei musei?
Siamo diventati invisibili. Ma è anche colpa nostra, di chi ha lavorato e lavora nei musei. Se la cultura viene considerata sacrificabile vuol dire che veramente ha perso visibilità e importanza, e siamo stati noi a permetterlo.
Questo è un problema enorme: i musei effettivamente (magari lo fossero) non sono luoghi di grande affollamento (oltre ovviamente i grandi blockbuster). Tutti si preoccupano (giustamente) di chi ha un’attività commerciale ma nessuno si è preoccupato dei musei.
Torniamo quindi al discorso primario, crediamo o no che i musei siano un servizio essenziale?
Non sto parlando di aperture indiscriminate, sono ovviamente del parere che se c’è un’emergenza bisogna rispettare le regole. Ma è evidente la disparità di trattamento, che francamente è incomprensibile. Magari i musei avessero i visitatori dei centri commerciali. Ho sentito, negli ultimi anni, decine di persone parlare di questo fantomatico articolo nove, in tutti i modi e per la maggior parte delle volte a vanvera. Io vorrei aver trovato una persona che me lo abbia citato nei mesi passati.
L’altro grave fenomeno, in questo senso, che mi preoccupa, è che tutto possa essere virtuale, ma non è così. Il virtuale può essere un mezzo strepitoso, ma non possiamo lasciar passare il concetto che può essere sostitutivo.
Parliamo di pubblico. Ogni anno si stilano classifiche sui luoghi di cultura più visitati. Quest’anno qualcosa dovrebbe cambiare: abbiamo avuto soprattutto contenuti digitali che hanno avuto un pubblico che un tempo non si conteggiava. È tempo di cambiare metodo? O addirittura eliminare questo tipo di classifiche?
Questa è un’altra delle mie fisse, i musei non sono numeri ma hanno numeri. Anche perché non ritengo i numeri un indicatore sufficiente per dire se il museo ha fatto un buon lavoro o meno.
Quali sono gli indicatori che mi dicono se un museo funziona o meno? Certo se ho molti visitatori ho fatto un buon lavoro di sensibilizzazione magari, di pubbliche relazioni, ma posso dire di aver svolto correttamente il mio lavoro? Purtroppo, confondiamo il turismo con la cultura e così abbiamo tutti gli indicatori sbagliati.
Dobbiamo fare pace con il concetto di cultura.
Secondo te, questi mesi di chiusura sociale saranno uno stimolo per andare al museo oppure saranno i musei a dover stimolare il pubblico? In poche parole, cambierà il modo di vivere il museo da parte dei visitatori?
Io spero che cambi, perché abbiamo bisogno di cambiamento. Ma avrei sperato che cambiasse anche un anno fa. Il museo deve cambiare di continuo, altrimenti resta come uno zombie. Il museo deve rispondere a dei bisogni della società, nel caso specifico deve permetterci di riconoscerci nei nostri beni. Per riconoscersi nei propri beni, il luogo della cultura deve essere in grado di farsi comprendere, e questo vuol dire che deve cambiare in continuazione, così come cambia la società. Le persone che vengono al museo, non devono venirci in maniera passiva. Tutto deve mutare, e per fortuna sta mutando.
Quindi, le persone avranno voglia di ritornare al museo?
È difficile da dire. Noi, quest’estate, siamo passati attraverso l’esperienza di Monet, che è stata incredibile. Mi sono pentita di non aver fatto delle registrazioni del pubblico. Perché quello che abbiamo visto, soprattutto il primo mese, è stato pazzesco. È stata veramente un riconoscimento della vita. Non ricordo di aver mai vissuto qualcosa del genere.
Abbiamo visto gente che piangeva e bambini che si sdraiavano e guardavano il quadro come se fosse la televisione. Considera che abbiamo avuto il 15% dei visitatori sotto i 14 anni, un risultato che non hai nemmeno in tempi normali. Il visitatore utilizzava Monet per ricaricare sé stesso, la propria anima.
Questa volta non lo so, le situazioni stanno mutando. Come la gente ha avuto tanta voglia di uscire per fare le compere di Natale, il mio desiderio, sarebbe che magari (non in quelle proporzioni) ci sia la voglia di tornare al museo. Abbiamo proposto la mostra di Michelangelo anche per questo, per spronare le persone, anche quelle un po’ più in dubbio. Michelangelo è una motivazione forte, un recinto sicuro nel quale ti riconosci. Se ti devi riavvicinare all’opera d’arte non deve sentirsi sotto esame, ma devi sentirti accolto.
Michelangelo è un recinto sicuro dal quale ricominciare questo viaggio.
Anni Venti, Banksy, Monet e Michelangelo. Cosa dobbiamo aspettarci per il 2021?
Speriamo di rimanere aperti. Intanto l’idea è quella di mantenere Michelangelo e farla diventare la mostra della primavera. Poi cercheremo di concretizzare dei progetti che erano già in essere l’anno scorso: la grande mostra di Escher e Piranesi e quella sui disegni Disney. Abbiamo poi in programma una bella mostra su Pasolini, saremo tra i primi a proporre una mostra sul poeta e il rapporto con la fotografia.
Non solo mostre: apriremo al pubblico i cosiddetti teatrini. Una zona meravigliosa del sottotetto, un piccolo spazio che vorremmo anche espressamente dedicare ai giovani, sotto i costoloni che Simone Cantoni ha costruito nel Settecento.
E poi tanti convegni: vogliamo offrire il più possibile occasioni di cultura gratuita, come il Palazzo ha sempre fatto.
Parlando di mostre. Qual è la mostra che hai apprezzato di più nel territorio genovese e quale hai apprezzato di meno negli ultimi anni?
La mostra che ho apprezzato di più è quella dedicata a Maragliano, allestita negli spazi del Teatro del Falcone a Palazzo Reale. L’ho amata moltissimo. In generale io rispetto il lavoro di tutti, magari non condivido la medesima visione, però credo che il rispetto ci debba essere.
Quello che ti posso dire è che non amo quelle mostre che implicano uno spostamento all’interno della stessa città di opere che sono già esposte in città.
Voglio dirti anche questo: il nostro lavoro ha bisogno di competenze, e le competenze non si improvvisano.
Se decidessimo una buona volta di mettere al centro di tutto questa parola, la prospettiva sicuramente cambierebbe. Una mostra deve essere preparata con competenza. Se il nostro sistema rivalutasse le competenze, riusciremmo a ridare il giusto senso a una serie di cose, come ad esempio il tuo percorso di studi.
Bisogna comprendere che non tutti possono fare il direttore di un museo o organizzare una mostra.
Torniamo a te, cosa ti ha dato più soddisfazione sinora e quale è il tuo rammarico maggiore, lavorativamente parlando?
L’esperienza più entusiasmante della mia vita, ma proprio bella, e già a pensarci sorrido, è stato il restauro di una statua di Canova, nel periodo in cui lavoravo sul Lago di Como. Era una scultura che Canova aveva finito, ma essendogli crollata nello studio, aveva dovuto restaurare lui stesso, per non perdere il committente.
Pensa quindi a questo gigante di marmo di quasi due metri, tutto dentro una ragnatela di gesso fatta da Canova. L’abbiamo restaurata e la Soprintendenza aveva deciso di riallestirlo nella sua collocazione originale. Questo gigante, delicatissimo, non poteva essere spostato con mezzi meccanici, perché le vibrazioni avrebbero compromesso questa straordinaria prova dell’arte canoviana del restauro. Allora l’abbiamo trasportato come si faceva nell’Ottocento, con le lastre saponate spostate da trenta uomini. C’era tutto: lo studio, il restauro, la parte museologica e infine l’accessibilità. Tutti i miei interessi in un unico progetto.
La delusione o il rammarico? Sai tanti eh. Probabilmente di aver compreso un po’ più tardi la necessità di declinare l’offerta museale in termini più ampi. Io pensavo che le diverse comunità che troviamo nel nostro paese non volessero partecipare alla vita del museo. Invece ho capito che non sono loro a non voler partecipare ma siamo noi che molte volte non troviamo i modi e i mezzi per diventare accessibili. Credo quindi di aver capito tardi che la cultura e i musei, in genere, devono essere il più possibile aperti, multimediali, contaminanti e attenti a quello che succede intorno a loro.
Questo concetto l’ho capito tardi, ma credo che siamo sempre in tempo per rimediare.
Cosa consigli ai giovani laureati che vorrebbero lavorare nel mondo dell’arte?
Voglio condividere quello che mi disse la Professoressa Ezia Gavazza quando dovevo decidere del mio futuro. A me non interessava la parte di ricerca pura, avevo proprio questa voglia di lavorare nei musei, viverli. Lei mi disse di fare le valigie e andare via da Genova, e di non tornare fino a quando non avessi perfezionato la mia preparazione. Era donna granitica.
Bisogna, anche se difficile, avere il coraggio di investire su sé stessi. Mi rendo conto di essere una donna fortunata. Le esperienze che ho fatto lavorando all’estero o con l’estero sono state determinanti per l’apertura della mente e per la creazione delle reti. La nostra è una materia profondamente legata alle contaminazioni reciproche e che, d’altro canto, soffre molto di una sorta di autismo, perché il più delle volte lavoriamo da soli, scriviamo per noi stessi e portiamo avanti nelle nostre ricerche da soli.
Come bilanciamento, quindi, è necessario confrontarci il più possibile con gli altri per non perdere la dimensione del mondo reale. Dobbiamo quindi investire molto su noi stessi e rivendicare costantemente la dignità del nostro lavoro. Non voglio mortificare il volontariato, che ci deve essere, però noi, se vogliamo dare coscienza al fatto che il nostro lavoro è importante ed ha un valore, dobbiamo rivendicare la dignità della nostra persona e del nostro lavoro.
Ma quindi, oggi come oggi, secondo te è possibile lavorare nel mondo dell’arte?
Non “è possibile”, si deve. Si deve. Noi siamo abituati a lavorare con opere che, se non succede un evento traumatico, durano in eterno. Questo, qualche volta, ci fa pensare che anche noi siamo eterni, ma grazie al cielo non lo siamo. Siamo noi che abbiamo la responsabilità di creare le condizioni adeguate affinché i giovani possano lavorare nel mondo dell’arte e della cultura. Queste condizioni non si sviluppano da sole.
Quindi io non voglio dare un consiglio a chi è giovane, ma a chi è anziano. I giovani fanno già tutto quello che possono, soprattutto quelli che scelgono questo mestiere e lo scelgono in coscienza, sapendo già che è un mondo difficile. Questa è una domanda che mi fanno spesso.
Io sono stata un panda (adesso fortunatamente ho smesso di esserlo): sono donna, uno dei più giovani direttori in Italia, diventata direttore incinta. Tutti mi chiedono come si fa. Io non lo so come si fa, però so che quello che posso e voglio fare adesso è lavorare per creare condizioni favorevoli affinché i ragazzi possano lavorare in questo mondo.
Il vero consiglio quindi lo voglio dare a chi sta dalla mia parte: è fondamentale prestarsi all’accoglienza e alla condivisione delle esperienze e del sapere con chi è più giovane. Voi giovani dovete investire su voi stessi, ma la responsabilità grossa è la nostra, non c’è via di uscita.
Articolo di:
Andrea Bocchi
Immagine di copertina:
Pagina Facebook di Serena Bertolucci
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