Atterrata a Copenaghen, all’inizio di febbraio, avrei dovuto intuire che sarebbe stato un Erasmus memorabile. Certo, mai avrei immaginato che la conferma dei miei sospetti sarebbe venuta da un luogo chiamato Codogno. Sospetti che sarebbero poi diventati certezza con la progressiva crescita della curva dei contagi.
In contemporanea, e in maniera direttamente proporzionale, aumentano nel seguente ordine: panico, dirette Facebook e richieste di appuntamenti su Skype, Zoom, House Party, Meets e altri sistemi strani la cui curva di profitti ha più o meno seguito l’andamento della curva dei contagi.
Mentre in Italia iniziano ad aumentare i morti, in Danimarca aumenta la pioggia. Mentre mia mamma, allarmata, mi chiama chiedendomi “Hai comprato le mascherine? E l’igienizzante? E i guanti?”, gli usi e costumi danesi rimangono invariati e perfettamente in linea con le direttive dell’OMS.
Distanziamento sociale: celo. Isolamento: celo. Aperitivi/spritz/trattoria: manca. La ricetta perfetta per sopravvivere di fronte ad una pandemia.
L’unico segnale che sembra anticipare l’imminente tragedia è quello delle compagnie aeree che continuano a cancellare tutti i voli di rientro per l’Italia, compresi i voli nel periodo pasquale. La mia stabilità mentale inizia a vacillare. “Cioè quindi in pratica io sono bloccata qui. Non posso tornare a casa. Se succede qualcosa sono fregata. Moriremo tutti. Non voglio morire sola. In un paese buio, mentre fuori piove”.
La situazione esplode.
Tra un bollettino della Protezione Civile e una conferenza stampa di De Luca, la linea tra realtà e puntata di Black Mirror diventa sempre più sottile. Partono le campagne per raccogliere i fondi per gli ospedali, si vedono immagini strazianti di militari che trasportano bare. Muoiono persone. La curva sale. Conte parla. Prima Milano non si ferma. Poi Milano rallenta. Poi Milano è assediata, e così tutta l’Italia. Scatta il panico.
Lo shock. Questa fase dura dalle 24 alle 72 ore dopo l’incontro con l’evento.
Il 7 marzo, al grido di “Stiamo distanti oggi per riabbracciarci più forti domani”, viene ufficialmente comunicato l’inizio della quarantena. La settimana successiva, anche in Danimarca scatta il lockdown. Lezioni sospese, locali e bar chiusi, divieto di assembramenti per più di dieci persone.
Niente autocertificazione e libertà di spostarsi e muoversi in città, una versione della quarantena decisamente più lieve. Non che fosse cambiato molto rispetto alla mia vita precedente. Almeno mi sono liberata del senso di colpa che mi assaliva quando alle ore 21.15 di ogni venerdì sera tiravo pacco ai miei amici perché “no cioè praticamente devo studiare/ho la febbre/devo pulire il forno”. Quando la verità è che guardarmi Propaganda Live era ciò che aspettavo dal sabato mattina precedente e, forse, una delle poche cose che, insieme alle bottiglie di Montepulciano Rocca Ventosa a 30 corone, continua a tenermi in vita.
Impatto emotivo. Dopo lo shock subentra la presa di coscienza e la consapevolezza dell’accaduto.
Improvvisamente non sono più lontano. La mia stanza potrebbe essere tranquillamente a Genova o a Bologna. Le distanze, paradossalmente, si annullano. Mi rendo conto di essere isolata, ma di sentirmi meno sola che mai. Per la prima volta mi trovo a riflettere e a provare sulla mia pelle cosa vuol dire essere distanti e rimanere bloccati in un posto che non senti tuo.
Nella mia mente ci sono per lo più numeri. I numeri delle persone che muoiono. I numeri dei contagi. I numeri del Pil. I numeri della disoccupazione. I numeri dei giorni passati chiusi in casa. Numeri che sembrano essere l’unica cosa mutevole.
Non so cosa pensare. La presa di coscienza è complessa. Travagliata. Un conto è lo shock. Quello lo subisci in maniera passiva, capita e ne sei vittima. Ma la presa di coscienza è una cosa che devi fare. Sei parte attiva di questo processo. Mettere in ordine i propri pensieri, già di per sé ingarbugliati e confusi, e dar loro un senso, sembra una sfida quasi impossibile in una situazione come quella attuale.
Nel frattempo, arrivano il 25 Aprile e il Primo Maggio.
Feste che per natura ti portano a confrontarti se non con i numeri, almeno con te stesso. Alla confusione si aggiunge il senso di responsabilità. Le distanze, ancora una volta, paradossalmente, si annullano. Un appuntamento fisso con la propria coscienza e con questa collettività che altro non è che una massa confusa e non identificata che però, magicamente, due giorni all’anno, sembra di nuovo avere un senso.
Il groviglio di numeri nella mia testa, per un momento, si distende e tiro un sospiro di sollievo. Irrazionalmente mi convinco che la gente che canta Bella Ciao dai balconi, contemporaneamente sia in prima linea per la giustizia sociale, per i diritti umani, per i diritti dei lavoratori, dei migranti e contribuisca ogni giorno a costituire davvero questa collettività.
A questo punto, la distanza diventa incolmabile. La presa di coscienza è in atto ed è dolorosa. Mi sono fermata un attimo e sento il peso del mondo sulle mie spalle, quasi come a dire: o scegli adesso o non scegli più. Sensazione che tutte le volte diventa sempre più dolorosa e sempre più sentita.
Davanti agli occhi mi si presenta una specie di schema ad albero costituito da una concatenazione infinita di scelte. Non so da che parte iniziare e mi sento impotente. I numeri ricompaiono. Ancora più complessi di prima. Se ne aggiungono altri, radici quadrate, numeri periodici, integrali.
Sono oberata da numeri e non so più cosa devo fare. Da dove ero partita? “E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei.” Non c’è nulla di dolce in questo naufragar. E’ piuttosto come il duello tra il Gramo e il Buono, le due parti di Medardo di Terralba che si contendono l’amore di Pamela ne “Il Visconte Dimezzato” di Italo Calvino.
Da un lato il mio Gramo, l’ipocrisia e l’egoismo. La condanna di sé stessi, una volta messi a nudo di fronte alla propria coscienza. “Se non lo faccio io, lo farà sicuramente qualcun altro”. Questo è il pensiero di cui più il Gramo si nutre e che lo rende forte e quasi invincibile. Il Gramo è infimo, subdolo, si nasconde dietro a Bella Ciao o alla lettura di un articolo di Internazionale. E’ abile a mascherarsi e per questo più difficile da combattere, proprio come un virus importato dalla Cina.
Dall’altra parte poi c’è il Buono. Devo ancora capirlo lui. Per ora penso che il Buono ci sia solo in potenza. Sotto forma di speranza che un giorno il Gramo verrà meno e che la fase della consapevolezza terminerà per tradursi in qualcosa di tangibile. Il Buono lo si può vedere per lo più nei rapporti interpersonali, nelle attenzioni che abbiamo nei confronti dei nostri cari e dell’affetto che ci viene dato in cambio. Il Buono è quel senso di soddisfazione che viviamo quando passiamo un esame, quando otteniamo dei successi sul lavoro o quando più semplicemente ci sentiamo felici e realizzati. Ma è bastardo, il Buono. Ci fa adagiare sugli allori, procrastinare, ci illude di essere coerenti e perfetti.
Nel romanzo di Calvino, la lotta tra le due parti si conclude con un solo ferito. Il Gramo e il Buono vengono riuniti da un medico in unico corpo. Chilometri di bende e un lavoro minuzioso che permettono a Pamela di avere finalmente un unico ed intero sposo.
Forse devo ancora trovare la mia Pamela per passare alle fasi successive: accettazione e convivenza. Ma è una lotta che sembra non avere fine, e questo, forse, è il senso del 25 aprile.
Immagine di copertina:
CDC
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