Biennale di Genova

Siamo saturi della Biennale di Genova

Grazie del servizio, Satura Art Gallery, ma ora è il momento di smontare le narrazioni che fanno male.
6 Luglio 2021
3 min
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Sabato 19 giugno ha inaugurato la IV Biennale di Genova, con la consueta importante definizione di Esposizione Internazionale d’Arte Contemporanea. A cura di Mario Napoli, Flavia Motolese e Andrea Rossetti, ha ottenuto il patrocinio e il contributo di Regione Liguria, il patrocinio di Città Metropolitana, Comune e Camera di Commercio di Genova, Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale.

Quarantacinque location espositive hanno ospitato le opere di duecentodieci artisti provenienti da venti nazioni diverse. 

Un tripudio d’arte che trova, salvifico, la piccola Genova di provincia ad attendere indifesa l’intervento di Satura Art Gallery per riaffermare finalmente la sua forza artistica. Siamo tutti grati, infatti, per questa iniziativa che è arrivata alla quarta edizione, dimostrando vera e sincera passione per la città, vero acume di pensiero e profondo interesse per le domande dell’arte con la A maiuscola. 

O forse no?

Approfondiamo meglio la questione, trovando negli svariati articoli online di recente uscita e nel servizio del TGR alcuni spunti coloriti su cui riflettere:

“Questa Biennale è intesa come momento partecipativo, un dispositivo di ricerca-azione sulla relazione fra artista, arte, città e cittadino. L’evento […] ha segnato una svolta nell’ambiente artistico genovese.”
(Itinerari nell’Arte).

“Il nostro è un atto di coraggio che vogliamo trasmettere a tutti gli artisti  […] Abbiamo deciso di agire in controtendenza e di procedere nell’organizzazione di questa quarta edizione, nonostante il Covid.”
(Ansa).

Bene, ora che siamo arrivati fin qui, facciamo lo sforzo di analizzare passo per passo quelle affermazioni che danneggiano (ci tratteniamo dal digitare: umiliano) la narrazione di una città e del suo tessuto; tanto più se compaiono su testate autorizzate e raggiungono un gran pubblico ignaro dei fatti (ci tratteniamo dal digitare inerme). 

Per analizzare e decostruire le narrazioni che fanno male serve sempre armarsi di santa pazienza e andare dentro alle parole: cercare con onestà e intelligenza di spingersi oltre la facciata delle cose e addentrarsi nella complessità dei fatti. 

  1. “Questa Biennale è intesa come momento partecipativo, un dispositivo di ricerca-azione sulla relazione fra artista, arte, città e cittadino”.

    Tutto molto bello, veramente bello. Eppure viene da domandarsi come possa svilupparsi questa ricerca-azione se per esporre viene richiesto agli artisti di versare una quota in denaro. Alla stregua di un capo d’abbigliamento, il manufatto creativo non viene valutato per la sua preziosità culturale, artistica, extra-monetaria, ma risulta a tutti gli effetti essere merce ancora prima di diventare arte: se vuoi essere artista, ti conviene investire su te stesso, devi pagare. Un processo che disincentiva la ricerca artistica propriamente intesa, a nostro avviso. 

Nella nostra concezione di ricerca-azione sulle relazioni tra arte città, deve verificarsi una collaborazione efficace tra artisti, curatori, istituzioni e pubblico, laddove per far funzionare tutte le parti in maniera socialmente utile (a che serve l’arte in dialogo con la città, se non alla società?) è necessario che l’artista abbia lo spazio, il tempo e le possibilità di lavorare su e con il territorio, e perciò che sia pagato dignitosamente.

Le cose non girano benissimo, questo lo sappiamo: ma c’è una bella differenza tra impegnarsi affinché cambino, impiegando risorse intellettuali, sociali e materiali, piuttosto che cavalcare l’onda e incentivare la perversione di un sistema già notoriamente malato. 

Ripetiamolo una volta per tutte, il più chiaro possibile: gli artisti non devono pagare per esporre le loro opere. Non è ancora chiaro il motivo?

Se contribuiamo a fare del denaro l’unico metro di paragone per l’espressione artistica, finirà che non sapremo più distinguere un’opera da un oggetto qualsiasi, che non sapremo più distinguere le Biennali istituzionali di denso valore storico e culturale dalle altre situazioni presunte tali.

  1. “L’evento […] ha segnato una svolta nell’ambiente artistico genovese”.

    Sarebbe d’uopo a questo punto definire con più precisione l’espressione “ambiente artistico genovese” e crediamo che molti dalla platea potrebbero alzarsi e far valere le loro ragioni. Se da una parte siamo tutti d’accordo che Genova non è la New York del MoMA e neppure la Milano delle infinite gallerie e spazi indipendenti, fiere e saloni, siamo comunque d’accordo – in molti – che non sarà un evento assolutamente scollegato dal contesto delle gallerie e delle istituzioni d’arte presenti in città a risollevare le sorti di una Genova che ha certamente ancora molta strada da percorrere, soprattutto sul piano della collaborazione interna.
  1. “Abbiamo deciso di agire in controtendenza e di procedere nell’organizzazione di questa quarta edizione, nonostante il Covid”.

    Ultimo punto in chiusura: ma Mario Napoli, presidente dell’Associazione Satura, ha una vaga idea delle direzioni del mondo dell’arte italiana? Facciamo presente per dovere di cronaca che il 22 maggio scorso ha inaugurato la Biennale Architettura 2021 a Venezia, una città che da un po’ di anni ospita Biennali di un certo livello – consigliamo di dare un’occhiata.

Una volta ancora, cerchiamo di concentrarci più sul contenuto e meno sulla forma!

Quale che sia stato l’impatto della quarta Biennale di Genova sulla città, noi da qui, dall’Accademia, dalle gallerie, dagli studi e dalle strade, non ci siamo accorti quasi di nulla.

Siamo solo stati brevemente disturbati dall’ennesima manifestazione (finanziata anche con soldi pubblici) che non parla né alla né con la città, che nasconde dietro a dichiarazioni altisonanti il vuoto torbido di un sistema che è già allo sfacelo: una sensazione di nausea che conosciamo fin troppo bene.

Arrivederci tra due anni, forse.

Immagine di copertina:
Collapsed farmer. Immagine British Library


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