Premessa: Labiba prima di essere un progetto è una storia, lunga e centenaria come la storia della Palestina. Per questo troverete sempre i nostri articoli divisi per capitoli come fosse un grande libro. Sama’ continua a suonare è il cap. 2.3 e fa parte della sezione dedicata alle donne palestinesi. |
Forse non tutti conoscono la dj Sama’ Abdulhadi, arrestata dalla polizia palestinese lo scorso dicembre, per aver suonato musica techno a Nabi Mus – tra Gerusalemme e Gerico – con l’accusa di aver profanato con la sua musica un sito dove si trovano una moschea e la tomba di Mosè.
Chi è Sama’ e che ruolo ha in questa storia?
Sama’ è la prima dj a portare la musica techno in Palestina, in particolare a Ramallah, paese d’origine dell’artista. Inizia a suonare nel 2006, quando incontra le prime difficoltà causate da ostacoli sociali, politici e geografici che il complesso territorio in cui è nata presenta.
Nel cortometraggio a lei dedicato Sama’ Abdulhadi: The Palestinian Techno Queen Blasting Around the Globe, racconta di come ha attraversato il checkpoint per oltrepassare il muro e raggiungere la città in cui aveva organizzato un party in cui lei avrebbe suonato, dove, paradossalmente, non le era stato consentito l’accesso.
Attraversare il checkpoint senza il permesso concesso da Israele non è un gioco. Si rischia molto, dalla multa di 1000 euro, al ritiro della patente, alla carcerazione e, nel peggiore dei casi – non così raramente – alla morte.
Eppure la dj non si ferma, spinta dall’urgenza di unire quelle terre divise da muri e da guerre. Perché la musica e, forse soprattutto la musica techno, non ha barriere, né cultura o confini. I suoni, come la danza, ci rendono liberi e Sama’ lo sa bene, perché da dove viene lei, ogni volta potrebbe essere l’ultima.
Nella sua impresa di ampia portata, che presenta molti rischi e richiede altrettanto impegno, sembra non esserci spazio per la paura, che, quando emerge, viene vinta dalla determinazione, dalla voglia di suonare e di comunicare con la stessa lingua dei suoni, che arriva a tutti indipendentemente dalla loro provenienza.
Abbattendo muri, dimenticando le origini e le bombe che piovono dal cielo. Devi ballare finché la musica suona, non ti devi fermare. E Sama’ non si è mai fermata.
Frequenta il SAE Institute di Londra e nel 2013 si trasferisce al Cairo, da dove la sua fama inizia a raggiungere ogni angolo del mondo, e nel 2016 fonda Awyav, un’agenzia di publishing che rappresenta artisti indipendenti provenienti dal mondo arabo. Tra i tanti progetti, Sama’ collabora con artisti palestinesi nati in Israele, insegna produzione musicale e djing come mezzi di resistenza e, negli anni, ha coltivato una vera e propria comunità underground di dj e artisti nella regione.
L’evento organizzato da Sama’ e altri artisti era stato voluto da Beatport, leader riconosciuto del settore per la comunità dei dj con un’impronta globale di oltre 36 milioni di utenti, con il permesso scritto riconosciuto dal Direttore Generale del Ministero del Turismo e delle Antichità Palestinesi. Il luogo era stato scelto dalla celebre piattaforma, per richiamare l’attenzione internazionale sul valore del patrimonio culturale e storico palestinese.
Secondo la tradizione musulmana, il sito custodisce la tomba di Mosè protetta da una moschea. Grazie al Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) con un progetto da 5 milioni di euro finanziato dall’Unione Europea, ha trasformato il sito in una pensione per turisti e pellegrini.
Sorge spontanea una domanda: un evento musicale può essere una tale minaccia da arrestare e punire la dj?
Ebbene sì, perché la musica techno non è ritenuta un patrimonio culturale palestinese, di conseguenza è da condannare. Ancora oggi, infatti, nonostante la scarcerazione sollecitata dalla mobilitazione di tutta la comunità internazionale, Sama’ rimane accusata di profanazione di un luogo sacro e di simboli religiosi, rischiando due anni di carcere.
Il ruolo di Sama’ in questa storia non è solo legato alla musica, che senza dubbio è un mezzo di comunicazione che offre uno sguardo ampio sul popolo palestinese e su un territorio che ha molto di più da raccontare oltre la guerra, i conflitti e le proibizioni. Ci fa riflettere su ciò che significa essere una dj, donna e musulmana che suona sulle dune di sabbia che proteggono il profeta e su ciò che rappresenta Sama’ Abdulhadi per i giovani palestinesi. In una parola: libertà.
Alla fine del cortometraggio, che vede protagonista la giovane dj, una frase in particolare assomiglia ad un’incitazione alla resistenza:
I’m riding the wave until one of us crashes: I either break techno or techno breaks me
Perché in Palestina anche per ascoltare diversi generi di musica bisogna lottare. La battaglia di Sama’ è la stessa battaglia combattuta da tutte le donne e gli uomini palestinesi.
Articolo di
Giulia Marchiò
Immagine di copertina:
Foto di Noah Dominic Silvio
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