La Genova che vorrei, la Genova che non è

La Genova che vorrei, la Genova che non è

C’è una Genova che vorrei ma che proprio non è, che proprio non riesce a essere. Eppure, continuo a sognarla. E se dopo i sogni arrivassero i fatti?
2 Agosto 2023
18 min
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Genova è bellissima, bella davvero, di una bellezza tutta particolare, incorniciata da un mare che sa farsi verde smeraldo o blu notte, da alberi che sembrano volersi tuffare con i loro rami contorti, da foglioline che sanno di Mediterraneo. E ci sono anche i monti, non imponenti ma qua e là generosi di vallate, non le più poetiche, forse, ma spazi di ossigeno, come un abbraccio o una chioma di capelli disordinati.

C’è il porto, che per me racconta sempre di arrivi e partenze, di scambio e di incontri, di vele spiegate, lingue che limonano, che magari non si comprendono, pesci inquinati, poveretti. Ci sono i porticcioli dei tramonti e delle albe, i vicoli stretti e labirintici che disorientano e costringono a percorsi indefiniti, indecisi, che ti portano dentro, a fondo, nel cuore buio e stretto della città, colorati all’improvviso di alti palazzi, una sorpresa. E i palazzi tra di loro si accarezzano o si spingono, per starci tutti, lì.

E altri vicoli che ti portano fuori, verso inattese piazzette che hanno l’odore del piscio ma anche il profumo dei panni stesi, qualche timido segnale di verde, una panchina quasi per caso. Non del tutto ospitale. I grandi quartieri-cicatrice, feriti ma pieni di storia. O ancora verso quel mare di prima, salino, salato e fratello.

Architetture belle, brutte, progetti bruciati, progetti sbagliati. Città d’errore ma pura. E all’improvviso dei portici, i nomi curiosi delle stradine appesi a imponenti muri antichi, come targhette ad abiti d’epoca, intriganti promesse d’amore, di spezie, di viaggi lontani.

E poi ci sono gli edifici storici impreziositi di affreschi silenziosi, in paziente attesa, capaci di esploderti negli occhi appena li sollevi sui soffitti. E pensi: ma davvero? Ci sono i segni del tempo e dei tempi che si sovrappongono, le scale ripide e le salite che portano a spazi-sospensione da cui tutta Genova si rivela nella sua splendida geometria di forme, nella sua ricchezza di diversità. In qualche modo c’è sempre una lanterna, laggiù. O c’è un campanile che spicca all’orizzonte. E ci sono tutti quei sarcofagi industriali, passato mummificato, grosse strutture che sfoggiano le tonalità più varie di grigio, capaci di restituire un’era intera di lavoro e di fortuna, ma anche di sfortune. Spesso carcasse, ma pur sempre con il loro potente fascino.

Eppure, in questa Genova, che sa essere oscena e meravigliosa, vita vera e cartolina, tante cose non mi piacciono, tante cose vorrei che cambiassero. Insomma, c’è una Genova che vorrei ma che proprio non è, che proprio non riesce a essere. Eppure, continuo a sognarla. E se dopo i sogni, arrivassero i fatti?

Lasciateci il mare (e le spiagge libere!)

Genova è sul mare, che banalità. Il concetto di spiaggia, a Genova, è particolare. Dentro e appena fuori la città ci si arrampica sugli scogli per bagnarsi i piedi, ci si cala dalla strada per raggiungere qualche sasso. Quel che c’è, è poco ed è prezioso come oro.

Racconta il nostro rapporto, intimo e prezioso, con una parte speciale di questa città. Le onde tendono a sfiorare i passaggi costruiti, le spiagge sembrano ritirarsi, schive. Sono spesso strisce strette di sassi e sassolini che d’estate la gente prova a conquistare. Il mare è un diritto, si direbbe. Siamo riuscit*, noi uman3, a trasformarlo in uno spazio di conquista, in una grande conca di privilegio. Dove c’è, c’è chi può infintamente goderne e chi può solo sperare di sopravvivergli, attraversandolo.

Ma a Genova ci piace fare il bagno, specie d’estate, ci piace guardare il mare, sentire l’acqua, possibilmente rigenerante, bagnarci la punta dei piedi di tanto in tanto. Ci piace sapere che c’è e che possiamo stare con lui, quando ci va.

C’è un però: le spiagge libere sono poche.

Sono poche, sono piccole e oltretutto sono spesso minacciate di scomparire nel nulla, riempite o sostituite da qualcosa che spiaggia non è. Il 53% delle spiagge della Liguria è privato. Ci sono località liguri che, contro ogni legge in merito, lo sono quasi del tutto. Un “andazzo” malefico, questo, e in controtendenza rispetto a quanto accade in altri paesi europei.

Ora, il problema è chiaro: una spiaggia privata costa. Costa in servizi e costa per chi vuole fruirne. Privatizzare le spiagge significa quindi, di fatto, renderle proibite e inaccessibili a chi non può o non vuole pagare per godere del mare.

Certo, direte, sarebbe bene anche fruire di spiagge pulite, ordinate, dove vige il rispetto per l’ambiente. Perché, allora, non investire qualche soldo a supporto di attivist3 e professionist3 che si impegnano costantemente per una sana e necessaria educazione ambientale? Perché non proporre e finanziare micro-politiche di conservazione e di cura dello spazio pubblico?

Lasciateci qualche lembo di spiaggia libero, dove poter andare senza pagare un biglietto, senza contare le ore. Nella Genova che vorrei..

Una birretta al tramonto, se ci va

Nella Genova che vorrei si contrasta il problema dell’abuso alcolici tra giovanissim3 e quello dei disturbi (talvolta innegabili, talvolta meh) subiti dai residenti di alcune aree della città, aumentando gli spazi di incontro, di aggregazione, di cultura in senso ampio. Favorendo la socialità e lavorando (ancora!) sull’educazione. Oh, nel senso bello e profondo del termine, da educere, tirare fuori.

E invece, ci tocca leggere di ordinanze senza capo né coda, sfornate da un giorno all’altro come si fa con la focaccia al mattino, calate dall’alto, pure insicure e titubanti, giustamente. Ordinanze che mirano a risolvere i problemi senza neppure individuarli e comprenderli, semplicemente coprendoli.

La mia impressione è che la tattica perversa messa in atto dal “potere” sia simile a quella di chi nasconde la puzza con il profumo costoso.

Quello che mi preoccupa delle cosiddette ordinanze antialcol non è solo la terrificante natura classista che vi sta alla base (di nuovo, come per le spiagge, se ho soldi per consumare al tavolo in un locale che ha un dehor ok, se per risparmiare mi prendo una birretta in una spiaggia, no ok), né l’approssimazione con la quale sono formulate (quali dati? Quali ricerche? Su quali basi di indagine sono selezionate zone e misure?), o la totale inutilità sul lungo periodo di norme che, se rispettate, comportano anche costi notevoli e impiego di forze per multare, seguire, fare la caccia alla “Compagnia della birretta fuori dehors”.

Quello che più mi preoccupa è la completa assenza di senso, di strategia, di ascolto. O peggio, l’esercizio violento e antidemocratico dell’ascolto selettivo, mirato, dedicato a una parte sola di città.

L’assenza di un esercizio fondamentale: quello della discussione pubblica, perché no anche della mediazione per trovare punti di incontro prima di insabbiare e nascondere sotto il tappetino. C’è chi parla di “nuovo proibizionismo”. Non so se il termine è corretto. Certo, la sensazione è quella di una spinta alla chiusura, all’esclusione e, peggio, all’esclusività; di una spinta al consumo specifico entro dettami (di tempo, spazio e costo) definiti e utili a qualcun altr*.

Ancor più detestabile è la continua riduzione di un qualsiasi tentativo di affronto, protesta e resistenza alle politiche dall’alto a capriccio di perditempo alcolizzat3. “Solo per bersi una birretta”. Sì, anche solo per quella. Nella Genova che vorrei non insegnateci, almeno, come e per cosa vale la pena protestare. Almeno. 

..questa storia della (in)sicurezza: Zenaland videosorvegliata

Zenaland campa di telecamere e di promesse di telecamere. Telecamere ovunque per combattere i vandali, gli scribacchini dei muri, i terroristi dei monumenti, i verniciatori di fontane (apro ennesima parentesi per ricordare che la fontana-cambia-colore va sempre bene per gli eventi targati Zenaland ma non per denunciare i disastri ambientali), gli ambientalisti anonimi, gli stupratori di donne, i ladri di accendini, i rissosi della movida ecc. Tutti messi così, a caso.

Praticamente, la Genova che è, è una sorta di grande spettacolo videosorvegliato. Che neppure nelle visioni di Orwell. E che Orwell, caro, già ci mise in guardia dalla società delle telecamere. Tuttavia, pare che un bel po’ di gente, fuori dalla mia stretta cerchia di amicizie e contatti, si senta rassicurata all’idea. Non a caso, a ogni molestia, a ogni vetrina rotta dalla già mitica “gang del tombino” (almeno una al mese, in centro storico, possibilmente a danno di una piccola attività locale) qualche commentatore o commentatrice social chiede i filmati, le riprese.

“Ma c’erano le telecamere! Oh, ma le riprese? Oh, ma i filmati?”.

Per carità, in più di un’occasione le telecamere rivelano pezzi fondamentali di storia, aiutano a ricostruire, scovano colpevoli, svelano bugie, tracciano percorsi, ricostruiscono. Mica dirò che non servono a nulla, in generale. Ma nel caso specifico di Genova sono una vera e propria mania che non dà risposte.

Molte di queste fantomatiche telecamere, in sostanza, non servono assolutamente a nulla, se non a farci sentire, in potenza, continuamente controllat3 non si sa bene da chi e perché. E infatti non beccano mai nessuno, quando serve. Forse son selettive pure loro.

Torniamo alla storia del profumo: pensare di combattere la microcriminalità, le minacce mafiose, gli atti vandalici, lo spaccio, gli stupri, le risse (metto tutto insieme, come si usa fare) riempiendo la città, e il centro storico in particolare, di costosi sistemi di videosorveglianza è del tutto inutile. Anzi, fa incazzare, considerato che quei soldi potrebbero essere spesi altrove e meglio. Dove, non dovrei dirlo io.. ma..

La Genova che vorrei, la Genova che non è
Porto Antico, Genova. Fonte Canva free copy

Ma la cultura? Ah, la cultura..

A Genova la cultura è:

capitale di una serie infinita di cose, record-girl di una quantità incredibile di primati, con una certa ossessione, forse interessante per la psicologia, per la lunghezza (dal salame, alla focaccia, passando per gli scivoli nella ormai anonima via dello shopping da grandi catene).

E poi iniziative “internazionali” piene di soldi misteriosamente scomparsi, con coinvolgimento di decine di “volontari” (lavoratori sfruttati), fan-follower fantasma, concerti gratuiti che non so perché ma fanno effetto sagra, con rispetto per le sagre, e sparate di fuochi d’artificio per ogni granello di sabbia inaugurato, alla faccia delle lamentele di quelli che odiano la ormai mitica “movida” genovese (e chiamala movida..) e per i quali si fanno le ordinanze ad cazzum. Alla faccia degli uccelli, pure.

E insomma tra un nastro e un record, ecco anche qualche sventolata di bandiera, qualche triste festa in maschera a richiamare i giorni gloriosi (ma non erano da dimenticare?) delle guerre e del colonialismo, o qualche santo remoto, meglio se in procinto delle feste nazionali che ricordano Resistenza, Liberazione.. e poi un po’ di Colombo, ovviamente privato di qualsiasi rilettura critica e complessa, ridotto a eroe dei due mondi, “scopritore” di una terra già scoperta, ben prima che dessimo il via a una delle più terribili stragi umane. Altro che sostituzione etnica.

E che dire delle crociate? Vengon sempre bene. Il tutto, condito in genere da una bella fila di sponsor eticamente discutibili e da un apparato comunicazione imbarazzante, tra spot e copy che sembrano nascere perché si prestino al mondo meme. Parallelamente, la totale assenza di uno o più poli culturali. Giardini Luzzati, Alle Ortiche, Zapata, Buridda, Pinelli.. sì. Grazie, grazie, ancora.

Ma i centri sociali sono anch’essi un’ossessione, a quanto pare, dei nemici della Cultura, che li considerano come un morbo da espellere, un virus letale. Non si spiega mai bene in ragione di cosa. Che i problemi economici, quando vien comodo, passano sottotraccia in un istante.

Non che se si torna entro il recinto delle “istituzioni” vada meglio: Villa Croce, che dovrebbe – sottolineo dovrebbe – essere il nostro Museo di Arte Contemporanea, è prigioniera di sé stessa. Quasi fa piangere, con tutte quelle preziosità conservate nel fortino, completamente sconosciute ai più. Neppure è più motivo di discussione.

I musei: ostaggio dei croceristi mordi-e-fuggi, magari in occasione di qualche iniziativa a fruizione gratuita, spesso privi di energie, anche quando pieni di valore e di persone di valore al loro interno. Apri-e-chiudi, non si capisce mai nulla. Il patrimonio industriale, quasi unico, destinato ai parcheggi e ai supermercati.

Ecco, l’altro cult della cult-ura locale sono i supermercati, che fioccano come margherite a ogni angolo, pure dove proprio non ci servono.

Ci dicono che rigenerano territori, sono inaugurati e celebrati come grandiose opere d’arte, spesso orrendi, antiestetici (come buona parte degli interventi pensati a colpi di rendering compulsivi per “recuperare” spazi e strutture). Potrei andare avanti per ore, fermatemi!

Ci sono anche i terrificanti festival dal passato a dir poco ambiguo (cito Genova Jeans, che si appresta a tornare.. nonostante tutto: leggi il nostro articolo Genova Jeans: tanto “rumore” per…?), continuamente finanziati. Dall’altra parte, festival storici, di valore e qualità ben più certi, sono inspiegabilmente impoveriti. Ovviamente, non esiste un assessore/a alla cultura. Te credo, manca la Cultura.

Esiste la guerra a busker e artist* di strada, sia mai che disturbino il decoro urbano, quello dei pisciatoi a cielo aperto. Però abbondano i “manager culturali” e qualche problema con i conti annesso. Figure improbabili, impreparate, si danno il cambio nelle occasioni “giuste”, come creature mitologiche. Aiuto!

Anche il divorzio Ducale-Bertolucci non sa di buono. Eppure, non serve spiegare il perché, Genova è ricchissima di Cultura.

Le energie luminose sono relegate nel sottosuolo, trovano spazi di espressione solo ai margini, perché “gli amici di” e “i soliti” si son presi gli altri. Ci toccano così mostre-pacchetto, allestimenti mediocri, i soliti 4 nomi a firmare le esposizioni, un tessuto galleristico sfinito e senza vitalità, una fauna di giovan3 che gattonano per chiedere in punta di piedi uno spazio che è loro dovuto.

E manca anche il dibattito culturale. Tutto quel poco che è, è subito passivamente. Non c’è critica, non c’è cultura della critica. Che un articolo sbagliato rischia di tagliarti fuori, di condannarti all’esilio, anziché generare discussione e sviluppare pensiero.

Nella Genova che vorrei la Cultura è espressione viva e vivace, è un cerchio aperto di possibilità e curiosità. È dare spazio, accogliere e condividere. È ascoltare.

Se non è pagato non è lavoro

Soldi spesi qua e là. Pure i nostri, eccome. Ma i giovani e le giovani non sono mai pagat*. Perfino quando si risponde a bandi e call di progetti che prevedono un grande investimento pubblico-privato, ci viene chiesto di “fare un’esperienza di crescita”. Sì. Però con i titoli, i diplomi linguistici, la patente X e il mantello dell’invisibilità. Niente, ci si paga in esperienza, righe di CV e pacche sulle spalle.

Ci chiamano volontar*. Si chiama sfruttamento.

Direte: basta dire di no. Ma quello della “visibilità” e del CV folto è un bel tranello, specie per le persone più giovani. Un gioco mentale dal quale non è facile liberarsi. È il sistema, che ci deve liberare. O noi ci libereremo del sistema. Ci vuole tempo.

Nel mentre, sorgono le domande: se proprio abbiamo soldi pubblici da cacciare a ogni festa di pelo, perché non stipendiare le professionalità, perché non investire in progetti che ci liberino dal triste ruolo di spettatori e spettatrici della nostra stessa vita? E poi, nella Genova-eterno-cantiere, qualche soldo per migliorare le condizioni di sicurezza sul lavoro? Per dirne una, una soltanto.

Nella Genova che vorrei, il lavoro che non è pagato non esiste e il volontariato è tale solo se è scelta consapevole e non scelta di sistema. 

Il muro degli antagonismi

Questa città vive ormai di antagonismi dentro gli antagonismi dentro gli antagonismi. Lo si vede a ogni ricorrenza: esiste sempre una manifestazione e una contromanifestazione. Ha senso, la pluralità di voci è un valore fondamentale. Ma in qualche caso sarebbe bello che le diverse dimensioni si incontrassero senza pregiudizio, anche solo per parlarsi addosso.

Ultimamente, la divisione netta è spesso anche un fatto generazionale e un fatto di incomunicabilità.

Transfemminismo giovane e femminismo storico, vecchia banda del quartiere e nuov* abitanti, radicali di ieri e radicali di oggi, organizzazioni per i diritti lgbtqia+ che si fanno i dispetti, antifascismi a confronto. Cos’è più antifascista? Tutto, potenzialmente, è motivo di divisione.

Dentro ogni cosa esistono milioni di sguardi, direzioni. Dentro ogni idea, risiedono mille livelli. Anche quando “si sta dalla stessa parte”. Frammentare è prezioso, disperdere non sempre. Confrontare è prezioso, ricercare continuamente motivi di divisione anziché di vicinanza, non sempre.

Per questo, nella Genova che vorrei, le prese di posizione a priori sono bandite. Meglio l’esercizio, più impegnativo, dell’incontro, anche in forma di “scontro”. Che il giusto assoluto forse non esiste. Neppure nelle migliori intenzioni. 

Quelle parole abusate che.. Bastaaa

Rigenerazione, gentrificazione, turistificazione, degrado, disagio, Nella Genova che vorrei si fa buon uso di queste parole, capendone il senso, accettando le critiche, facendo autocritica, abolendo gli slogan e gli infantilismi.

Faccio solo un esempio, riprendendo una mia vecchia considerazione.

Dopo anni che leggo tutto e il contrario di tutto non ho ancora chiaro cosa si intenda con “GENTRIFICAZIONE”. Meglio, non mi è chiara l’applicazione di questo termine a una serie di situazioni. Mi pare termine abusato, comunque.

Continuo a leggere, a storicizzare il fenomeno, ad assistere a incontri sul tema, a parlarne con amiche e amici. Tant’è..

Unica certezza, nella mia umile testa ignorantissima sul tema, è che “gentrificatore” non possa essere uno spazio o un servizio o un’attività. Quanto piuttosto la legge di mercato o, se proprio vogliamo ampliare e ideologizzare, il capitalismo. Quel mostro enorme che vogliamo contrastare ma che ragazz*, brutte notizie, pervade praticamente l’intera nostra quotidianità privilegiata.

E allora, quello che capisco io è che se un quartiere o un’area urbana migliorano la propria “salute” (ho delle belle cose da farci dentro anche nel tempo libero, non devo temere troppo spesso di rientrare a casa la sera, ho dei servizi di comodità, pulizia, offerta di intrattenimento, presidio informale e sociale che sostituiscano divise scenografiche e telecamere ed evitino al contempo l’effetto Far West, non ho le colate di cemento davanti a casa e non ho i fumi tossici alla finestra), di conseguenza il quartiere stesso diventa più appetibile.

E grazie al cavolo. Ci vogliamo vivere tutt*.

Altra conseguenza ovvia, c’è più richiesta. Più concorrenza al rialzo. Alias aumentano i prezzi degli affitti. Alias se il posto è più attrattivo chi me lo fa fare di affittare a lungo e medio termine se guadagno il triplo affittando ai turisti? E quindi chi c’era già, benissimo. Ci sta e vive meglio o si arricchisce. Chi c’era di passaggio o chi ambiva a esserci son c***i amari.

Ma la colpa, appunto, è il capitalismo. O la legge di mercato. Che è inevitabile mi sa. Nel senso che funziona così su ogni questione, non solo sul diritto ad abitare. E vai a risolverla ‘sta roba. Altro che convegni. Anche perché non è che noi semi-poveri o poveri siamo davvero liberi e liberati dal capitalismo. E oggi più che mai il panorama è grigio per le utopie.

E comunque la verità storica e universale è che i poveri son sempre più o meno sfigati, ma sempre più sfigati dei ricchi.

E così se vivi in un posto più curato, accessibile, comodo per i mezzi, con spazi puliti, “sicuri”, attrattivi paesaggisticamente o su piano storico artistico (sempre in connessione con flusso turistico che porta soldi ecc. Ecc.), spendi di più. 

E allora altro punto: ma se questo “abbellimento” dello spazio è una volontà tutta calata dall’alto e pensata da chi ha già soldi e/o potere.. tipo che so, il Comune? Ecco, qua il nodo. 

Perché se uno se ne sta bene come sta e improvvisamente mi aprite cosette carine che non mi interessano, specchietto per il turismo mordi-e-fuggi, magari chiudendone altre che mi interessano e magari manco me ne parli prima né tieni conto della mia voce e i prezzi dell’abitare si alzano e io me ne devo andare per la tua idea di città turistica e cool, beh mi arrabbio.

Ma che succede quando il “miglioramento” va oltre il mero abbellimento, appunto, di facciata, e significa anche nuove opportunità sociali? E che accade quando è richiesta che parte dal “basso”? Ovvero, che succede quando sono gli/le abitanti (non tutti, forse, ma la maggior parte) che vogliono sostituire una piazza “difficile” con una piazza più vivibile? Quando gli/le abitanti chiedono una “movida” alternativa che non significhi solo consumazioni fino al mattino ma anche spazi per la socialità e la relazione? O magari la famosa “offerta culturale”? Quando gli/le abitanti vogliono più verde, più cura? Quando vogliono uno spazio per i bambini? Cosa succede, insomma, se il processo di cambiamento è “partecipato”? Se la visione non è solo la “loro” ma la “nostra”?

Torniamo al punto di prima.

In questo secondo caso i processi non sono “calati dall’alto” ma rispondono a una legittima (non condivisibile per forza, ma comunque legittima) richiesta o aspirazione o desiderio o addirittura bisogno dal “basso”.

Chiaro che questa richiesta riguarda più chi risiede in modo permanente e chi è proprietario o chi è coinvolto per ragioni quotidiane tipo i figli a scuola o il negozio di pentole, e molto meno chi è in affitto. Perché i primi avranno un quartiere migliore. I secondi subiranno l’inevitabile. Ovvero la legge di mercato (immobiliare ma non solo). E quindi bye bye.

E allora, come se ne esce? 

La questione sta tutta in questa faccenda: se la mia impossibilità di stare in un posto dipende da decisioni che riguardano il profitto di pochi, c’è una battaglia serrata da fare. Mi spingerai fuori per evitare il ricambio sociale (eh sì, anche “etnico”, alla fin fine.. e di classe e culturale ecc). Sempre più fuori, fino ai margini. In virtù della cartolina e parallelamente della “conservazione” degli “autoctoni”.

Ma non è lo spazio di per sé, o il bar, o l’attività che genera il problema. Il problema è, ovviamente, il mercato che si attiva. Se però la mia impossibilità più o meno improvvisa di stare in un posto o di ambirvi è dettata da bisogni comuni e condivisi da chi c’è già e magari da più tempo, che ha trovato una possibilità di risposta e trasformazione in meglio secondo la sua ottica, cambia o no?

A voi le considerazioni.  

Includere le diversità per davvero

L’inclusione è un fatto serissimo. E deve essere la chiave di un preciso progetto, sociale e politico, a lungo termine, non basata su azioni estemporanee. Si educa all’inclusione. La città e i suoi spazi pubblici sono in larga misura inaccessibili per persone con varie disabilità. Per dirne una. (articolo di wall:out Vi piacerebbe se la città fosse stata progettata per farvi arrivare in ritardo agli appuntamenti? C’è a chi succede, parliamone)

La riduzione di supporti ai servizi di accoglienza, genera frustrazione e riempie di ostacoli tante vite. La ricerca continua di un capro espiatorio (meglio se povero e straniero) rischia di fomentare odio e paure ataviche, inaffrontabili a suon di ragione.

E può forse una panchina arcobaleno significare che non sarai discrimat3 per il tuo orientamento sessuale in una città che nega diritti fondamentali a seconda di chi ami o desideri?

Nella Genova che vorrei l’inclusione delle diversità si dice ma soprattutto si fa. E si fa tutto l’anno. E significa garantire a tutt* simili possibilità, non diventare tutt* uguali. Essere uguali e avere uguali diritti non è la stessa cosa.   

Occhio all’ambiente, è un consiglio

Le politiche ambientali a Genova stanno a zero. In tutti i sensi possibili. Confidiamo sempre nelle iniziative dal basso, dal terzo settore, dal mondo dell’associazionismo e dell’attivismo.

Chi ricicla, chi raccoglie mozziconi, chi favorisce il riuso, chi combatte lo spreco, chi pulisce le spiagge, chi protesta perché si guardino in faccia gli effetti del cambiamento climatico, magari valutando con senso i progetti di costruzione, prevenendo disastri. Ma non basta, ovviamente.

La città che amministra è sorda, impegnata a tirare giù alberi, a fare orribili rendering, a illuminare monitor di dubbio gusto, a stendere tappeti rossi tra le vie del centro storico (stendiamo un velo pietoso), a progettare soluzioni di trasporto che nessuno ha chiesto, a falsare i numeri ridicoli di iniziative molto costose, a spostare depositi chimici a ridosso delle case, a costruire in zone inondabili.

Tanto, se accade qualcosa potranno sempre ricostruire, sul modello Genova. E farci una campagna. 

I conti in tasca

Sarebbe anche divertente, il loop di Genova lunapark, se non dovessimo sempre pagare il biglietto. Che le attrazioni possono piacerci, ma di tanto in tanto. Per questo, nella Genova che vorrei, c’è molta più trasparenza e onestà.

Voglio sapere dove vanno i nostri soldi, perché ci vanno e come. Voglio anche sapere se quegli stessi soldi potevano andare altrove, che so, nell’edilizia scolastica, nella sanità pubblica, nei trasporti, nel verde urbano.. tutte cose che mi sembrano un tantino più importanti della festa di San Bernardino da Pieve Ligure. Non si sa mai niente.

Quando si scopre qualcosa, viene da piangere. Ma ad arrabbiarci sul serio, poi, siamo poch* e l’ombra dello sconforto ci avvolge. Ci toccheranno skymetro, funivie, megamarket, dighe, ci toccherà la retorica del fare (tanto per fare). E sapremo sempre troppo tardi quanto ci è costato, quanto poco ne valesse la pena. 

In-formiamoci con cura

Vale a livello nazionale, perfino mondiale. Ma già che ci siamo, chiudo così.

Nella Genova che vorrei l’informazione non ci massacra più con titoli ignobili che accusano le donne di essersi fatte uccidere, i giovani ammazzati di essersela andata a cercare, e via dicendo. Nella Genova che vorrei: un’informazione di qualità che va oltre il clickbait, il titolo urlato accalappia like e leoni e leonesse da tastiera.

Linguaggio attento, informazioni caute fino a che il vero non sia inconfutabile, informazione completa e trasparente, possibilmente non razzista e non sessista, che non sta nelle mani dei partiti e che non diventa strumento di propaganda politica o di campagna elettorale.

Lo so, utopia. Ma nella Genova che vorrei, ci metto pure questo. 
E buona estate.

Immagine di copertina:
Fonte Canva free copy


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Storica dell’arte specializzata in storia dell’arte contemporanea e curatrice indipendente, scrive per la rivista d’arte “Juliet”, lavora nel settore comunicazione della Coop. Il Ce.Sto e dei Giardini Luzzati-Spazio Comune, è social media manager di diversi progetti in corso, lavora nella redazione del network di comunità “Goodmorning Genova”. Co-fondatrice di Progetto A (associazione che ha realizzato progetti di curatela e promozione artistica). Sempre attenta all’attualità, con una forte vocazione per il sociale, attivista delle cause perse, mente aperta e curiosa, appassionata di cinema e accanita lettrice. Femminista. Viaggia spesso, vive di arti, di relazioni sociali, di incontri. Scrive, scrive, scrive -sempre, ovunque, specie di notte.

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