Al Teatro Nazionale di Genova, Sala Ivo Chiesa, è andato in scena Graces, coreografia e drammaturgia a cura di Silvia Gribaudi, affiancata dallo sguardo registico di Matteo Maffesanti.
Con Graces, Silvia Gribaudi prosegue la sua del tutto personale ricerca sul tema della bellezza, mettendo a diretto confronto – anche in un gioco di convenzioni legato ai generi – femminile e maschile, quotidianità e ideale, danza praticata e danza idealizzata.
Vincitore del Premio Danza&Danza come “Miglior produzione italiana dell’anno 2019” e del Premio Hystrio Corpo a Corpo 2021, a cinque anni dal suo debutto lo spettacolo ha continuato a riscuotere unanime consenso, sia da parte degli addetti ai lavori, sia dagli stessi professionisti del mondo della danza, nonché del pubblico, preparato e non.
Ma perchè? Per uniformarsi, per non osare criticare?
La curiosità di assistere a Graces era anche dovuta all’interesse nell’approfondire come il suo lavoro si fosse sviluppato negli anni, dopo aver assistito a una delle sue prime produzioni, R.OSA 10 esercizi per nuovi virtuosismi, one woman show interpretato magistralmente dalla giovane attrice Claudia Marsicano (Premio UBU 2017 come Migliore Attrice/performer Under 35): femminilità alla Botero, tutina e scarpette da danza, un viso bello e dolce, si esprimeva con grazia, grinta, agilità, trasmettendo una lirica, una purezza di linguaggio teatrale senz’altro unici.
Negli ultimi dieci anni il lavoro di Silvia Gribaudi si è concentrato sulla riflessione circa gli stereotipi di genere, sull’identità del femminile e sul concetto di virtuosismo nella danza e nel vivere quotidiano, andando oltre la forma apparente, cercando la leggerezza, l’ironia e lo humour nelle trasformazioni fisiche, nell’invecchiamento e nell’ammorbidirsi dei corpi in dialogo con il tempo.
Con Graces afferma di essersi ispirata al gruppo scultoreo le Tre Grazie realizzato da Antonio Canova nel secondo decennio dell’800, al concetto di bellezza e natura ad esso collegate, giocando con la deformazione e la reinterpretazione della bellezza classica in chiave contemporanea.
Gribaudi, coreografa e performer, spesso ha usato la danza e il movimento al fine di mettere in discussione e trasformare canoni tradizionali di bellezza e perfezione. Seppur sempre presente una irriverenza rispetto ai linguaggi consueti della danza e del teatro ai quali siamo abituati, nel caso di Graces la provocazione la fa da padrona.
Gribaudi con il suo approccio non convenzionale sovverte le aspettative legate alla perfezione tecnica e all’estetica tradizionale della danza.
Piuttosto che seguire le rigide strutture formali del corpo in movimento, propone una danza più libera e giocosa, che spesso si riflette in gesti volutamente imperfetti o in una messa in scena che non punta a soddisfare le rituali norme accademiche. E allora sorge la domanda:
Tutto ciò che viene proposto all’interno delle performing arts può essere definito come una perlustrazione dei limiti della danza o del teatro?
In scena tre aitanti danzatori più o meno dotati della tecnica tanto discussa – Siro Guglielmini, Matteo Marchesi, Andrea Rampazzo – in calzoncini aderenti e calzini neri, i quali giocano con la stessa Gribaudi anch’ella in tutina, calzini neri. Luce bianca a tutto palco. Lo spettacolo, fatto di brevi sequenze coreografiche, si sviluppa passando da una citazione accademica a un numero da show televisivo.
Il pubblico pare si faccia prendere, chiamato continuamente in causa dagli interventi della Gribaudi – la quale ringrazia, invita a osservare, sottolinea, apre spiragli di riflessione; ride e poi applaude a scena aperta (un altro stridore rispetto alla tradizione) e risponde alle domande anche in maniera arguta.
Tutto lo spettacolo sarà giocato su questo richiamo agli stereotipi per poi subito ricamarvi ironicamente intorno, smontandoli, destrutturandoli, rendendo evidente la necessità di un fenomeno che vuole essere guardato.
Va bene non prendersi troppo sul serio e questo può valere per spettatori, danzatori, critici, ma la sensazione percepita è stata non proprio gradevole.
Seppur anche in R.osa veniva veicolato questo messaggio, in quel caso specifico la regista aveva fatto centro, mettendo alla berlina una giovane attrice, sola in scena, la quale ha saputo attrarre su di sè un’ammirazione reale delle sue evidenti capacità artistiche, un’ammirazione che andava oltre le fattezze del proprio corpo.
A ogni buon conto Graces ha dato voce a uno spazio di riflessione sull’arte stessa, spingendo gli spettatori a guardare la danza in modo diverso, enfatizzando l’importanza dell’autenticità e della vulnerabilità di un corpo che invecchia e non è più perfettamente tonico, piuttosto che concentrarsi esclusivamente sulla perfezione e sul suo apprezzamento.
Un parallelismo che è sorto spontaneo assistendo alla performance, è stato quello con il film che nel 2017 vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes, The Square del regista Ruben Östlund: una pungente satira provocatoria sulle ipocrisie del mondo dei musei e dell’arte contemporanea d’élite, che non sa esprimersi universalmente di fronte ad una comunità.
Ironia, leggerezza, provocazione, irriverenza, rompere con le tradizionali aspettative, può realmente costituire un nuovo modo di esplorare altre forme di bellezza?
L’emozione, però, non è arrivata, la fibrillazione di essersi portati a casa qualche cosa da conservare, neanche.
Immagine di copertina:
Graces. Foto di Claudia Borgia – Chiara Bruschini
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