“Ma questo è un mercatino vegano, ti rendi conto?”: tra la folla, anche chi si meraviglia di questa realtà.
Immaginate, invece, un mondo dove imbattersi in un festival di questo tipo non creerà più l’effetto “wow” né susciterà fastidio, odio e derisione: sarà semplicemente parte della normalità.
Tuttavia, quel mondo, per ora, “rimane una bellissima bolla”: infatti, come ricorda Tiziana Nanni, attivista e volontaria dell’associazione rIcerCare, solo il 2,3% della popolazione italiana è vegana e antispecista.
Con questi appellativi si intende una persona che, per ragioni etiche, vuole evitare lo sfruttamento e la sofferenza degli animali, escludendo dal suo stile di vita tutti i prodotti di origine animale: non solo carne e pesce, come chi si definisce vegetariano, ma anche miele, uova, latte e derivati e tessuti come la lana, la seta e la pelle.
Inoltre, sostiene che tutti gli esseri viventi abbiano il diritto di essere trattati con dignità e rispetto, indipendentemente dalla loro specie.
“È un po’ come se, a un certo punto della vita, uno si rendesse conto che quello che ha sempre fatto, come mangiare la carne, sia intrinsecamente sbagliato – dichiara Federico Ceccattini, attivista ed ex organizzatore di Anonymous for the Voiceless – Si riconosce di essere stati complici e di aver perpetrato un’ingiustizia”.
Inoltre, ciò contraddice i propri valori, “perché il carnismo va contro la compassione, l’empatia: fondamentalmente, va contro quello che noi definiamo umano”.
“Inizialmente avevamo una community online dove postavamo recensioni e informazioni su quello che Genova offre in chiave vegan”, racconta Giulia Cimarosti, co-ideatrice del VeGenova Vegan Festival, insieme ad Alice Cosso , “Poi, in modo quasi naturale, ci è venuta voglia di fare qualcosa che unisse queste realtà: non un post di qua e un post di là, ma qualcosa di fisico”.
Così, nel 2022, si è tenuta la prima edizione del VeGenova, riscuotendo un successo inaspettato:
“da questo risultato, abbiamo capito che c’era davvero necessità di creare una community vegana “, continua Cimarosti: “Le persone avevano bisogno di riunirsi, di trovare tanti banchetti di cibo plant-based, rifugi e qualsiasi altra cosa che potesse rispecchiare il loro stile di vita. Questo ci ha dato la spinta per riorganizzare il festival negli anni successivi e ampliarlo”.
Il VeGenova Vegan Festival 2025: stand, eventi e incontri
La terza edizione del VeGenova, la più grande finora, si è tenuta il 26 e il 27 aprile 2025 ai Giardini Luzzati.
Come affermato dalle organizzatrici, quest’anno l’evento ha offerto una prospettiva a tutto tondo, dalla gastronomia alla salute e all’arte, con stand di cibo, banchetti di artigianato e oggettistica di vario tipo. Tutto a tema antispecista e animalista.
Oltre a ciò, sulla balconata, erano presenti postazioni di rifugi e associazioni per raccontare la loro filosofia e i loro progetti di salvaguardia e tutela degli animali.

Ad arricchire l’evento, anche un ampio programma di incontri, talk, conferenze con professionisti del settore, presentazioni di libri e show-cooking di cibo plant-based.
“La nostra ospite di punta di quest’anno è stata Sabrina Giannini, nota giornalista Rai che ha parlato dell’importanza della comunicazione come mezzo d’informazione su tutto ciò che riguarda l’industria agro-alimentare”, conclude Giulia Cimarosti: “L’associazione Gruppo Yoga Solidale di Genova ha organizzato, invece, una sessione di yoga con offerta libera, che abbiamo donato interamente ai rifugi presenti al festival: qualunque cifra è un gesto per appoggiare il loro importante lavoro”.
Associazioni e rifugi antispecisti: per mettere fine al maltrattamento su tutti gli animali
La scelta di essere vegani, in Italia, è ancora di nicchia. E, anzi, in molti casi, le persone sono infastidite da chi sceglie di intraprendere una vita cruelty-free:
“Per gli altri, siamo una seccatura perché mettiamo in dubbio tante cose che non funzionano”, sostiene Tiziana Nanni: “È palese che ci sia qualcosa di strano se ci si indigna per i cinesi che mangiano la carne di cane, ma non che, in Italia, si mangino altri animali mandati al macello da cuccioli, come il maiale o l’agnello”.
Ed è per questo che, con il tempo, sono nati numerosi rifugi e associazioni volti alla tutela e alla salvaguardia delle più svariate specie animali.
Per Federico Ceccattini, fare attivismo è importante: “Quando ci si rende conto che un’ingiustizia è incancrenita a livello sociale, ciò che si può fare dal punto di vista morale è, non solo non perpetrarla, ma anche provare a difendere chi è vittima”.
È da questo che nasce l’esigenza di provare a portare il messaggio in strada: “Se non sei tu, che ti rendi conto dell’ingiustizia, a fare qualcosa, gli animali che speranza hanno?”.
Tra le diverse associazioni, Animals Asia si occupa di chiudere le fattorie della bile nei paesi asiatici e migliorare le condizioni di vita degli animali in questi territori, in particolare in Vietnam: qui, queste strutture sono illegali dal 1992, ma continuano a sopravvivere a causa di lacune legislative e alla domanda frequente di questa sostanza curativa.
“Finalmente, il governo vietnamita ha deciso di porre fine all’industria della bile, con la nostra collaborazione”, afferma una volontaria dell’associazione: “Nell’ultimo periodo, abbiamo salvato 300 orsi che, per tutta la loro vita, erano stati rinchiusi in una gabbia: ora vivono una vita serena e libera da ogni sofferenza, nei nostri santuari”.
Oltre a questo tipo di associazioni che operano dall’esterno, ce ne sono altre che cercano di cambiare la mentalità e il funzionamento della società direttamente dall’interno.
È il caso, per esempio, di rIcerCare, fondata nel 2008 e che si batte per l’introduzione di opzioni diverse dalla sperimentazione animale, come colture cellulari per simulare organi e tessuti, campioni in vitro e in silico, esperimenti con dei manichini o con tessuti stampati in 3D.
“Il singolo non ha potere di andare a bussare alle case farmaceutiche per chiedere un cambiamento”, dichiara la volontaria Tiziana Nanni “Ecco perché lo scopo dell’associazione è anche quello di creare una rete tra ricercatori, medici, biochimici, ingegneri della biomedicina e tutte le personalità scientifiche che si occupano di sperimentazione e sviluppo di farmaci e cosmetici”.
Dal 2010, con la direttiva 2010/63/UE, tutti i Paesi membri dell’Unione Europea si impegnano a ridurre e, quando possibile, a sostituire la sperimentazione animale: “che poi, purtroppo”, continua Nanni: “Non è assolutamente garantito che, effettivamente, questo avvenga, anche perché dietro, a volte, ci sono degli interessi economici molto forti”.
Secondo gli ultimi dati disponibili rilasciati dal Ministero della Salute, nel 2022, sono stati maltrattati per scopo scientifico ben 420.506 animali solo in Italia.

Il maltrattamento degli animali, però, non comincia con l’iniezione o l’esposizione a sostanze per testarne l’efficacia: già da prima, questi soffrono di privazione di diverso tipo e isolamento.
“Noi offriamo attivamente sostegno a diversi rifugi che li salvano dalla sperimentazione”, dichiara Nanni, “Si tratta di animali che, anche se sono in buona salute, verrebbero soppressi e noi tentiamo di dare loro una casa e una famiglia, insegnando loro ad avere nuovamente un rapporto con gli altri animali e con l’uomo”.
In poche parole, “cerchiamo di ridare loro una vita, oltre che di sensibilizzare l’opinione comune”.
Tuttavia, su questo aspetto, la società non ha ancora aperto gli occhi: come spiega l’attivista, “il maltrattamento è giustificato, perché evidentemente qualcuno deve sacrificarsi per produrre dei farmaci e delle cure efficaci”.
Quasi nessuno sa, però, che il 95% dei farmaci prodotti attualmente mediante la sperimentazione animale non passa la prova sull’umano.
fonte research4life.it
“Questo ci dovrebbe far capire che evidentemente, in questo metodo scientifico, qualcosa non funziona”, sostiene ancora Nanni: “Oltre a essere eticamente discutibile, non è neanche una soluzione così efficace”.
A volte, addirittura, il maltrattamento non viene nemmeno motivato con la ricerca e il progresso: un episodio noto è quello dell’allevamento di Green Hill, a Brescia, dove veniva fatto respirare a cani beagle il fumo di sigaretta, spesso attraverso un buco nella gola per facilitarne l’inalazione.
“Non c’era neanche esattamente un fine scientifico”, spiega Tiziana Nanni: “Semplicemente, la lobby del tabacco voleva dimostrare che, tutto sommato, non era proprio quella la causa principale del tumore”.
Cristianesimo, ma anche islamismo, ebraismo, buddismo, induismo e altre religioni, in qualche modo, legittimano la supremazia dell’uomo su tutti gli animali.
“Anche chi si proclama laico è cresciuto in una società che ha quell’impronta” continua Nanni: “Fin dall’alba dei tempi, ci è stato inculcato un suprematismo bianco patriarcale, con tutti i falsi miti ad esso legati”.
Credenze e ostilità nella scelta di diventare vegani: quanto contano la cultura e la politica?
“Negli anni, ho smesso di presentarmi come vegana”, racconta Tiziana Nanni. Le persone iniziano a rendersene conto solo per le scelte “diverse” che prende al bar quando ordina un caffè macchiato o quando è al supermercato.
“Ma comunque, poi, si apre sempre il solito dibattito: non hai carenze? Ogni tanto lo sgarretto non lo fai? Bruchi solo insalata? Ne ho sentite diverse negli anni, ma hanno poca fantasia e, col tempo, questi stereotipi iniziano anche un po’ ad annoiare”.
Le tradizioni e la cultura, infatti, giocano un ruolo importante nella scelta. Queste, però, sono una selezione di comportamenti, credenze e pratiche emerse in un determinato momento della storia, per motivi e necessità politiche, economiche e sociali. E spesso, questo attaccamento al passato può far sì che si portino nel presente anche usanze che si rivelano dannose.
Ma, a differenza di ciò che si crede, le tradizioni culturali sono mutabili.
Secondo un rappresentante di AmicEarth, azienda bolognese specializzata nella produzione di burri e oli vegetali puri, dagli anni 50’ in poi, il consumo di carne è aumentato in quanto segno di ricchezza:
“Non sempre si riescono a convincere le persone ad andare contro le loro abitudini, facendo capire loro che una mandorla contiene più sali minerali e proteine della carne. Si tratta di qualcosa che è scientificamente provato, ma resta comunque non credibile per la gente”.
C’è, poi, tutta una serie di freni sociali. Non per ultimo, quelli legati al giudizio familiare:
“Quando ti rendi conto che qualcosa, che per tutti è la normalità, non funziona, una delle cose che fai è andare dalle persone con cui sei più legato e cercare di aprire loro gli occhi”, racconta Federico Ceccattini “E lì, il più delle volte ricevi batoste socialmente importanti: ci sono persone che litigano con gli amici e altre che si allontanano dai genitori”.
La scelta, infatti, “Potrebbe non essere capita o incoraggiata e, spesso, le persone più vicine possono prenderla sul personale, come se non ti piacessero più i piatti che ti cucinavano”, concorda Nanni.

Ma anche la politica finisce per influenzare questa scelta, a detta di Enza Marramao, volontaria di un’associazione animalista:
“In Italia, c’è un vasto consumo di carne e di altri prodotti animali, per cui, politicamente, il cambiamento sarebbe troppo grosso. Così facendo, però, si appoggiano le crudeltà sugli animali”.
“Dal punto di vista politico, non è una scelta appoggiata”, sostiene Ceccattini: “Perché vai contro a delle lobby inserite nel tessuto economico globale: dietro, c’è un giro di soldi assurdo”.
Infatti, come dichiara Tiziana Nanni, “La politica dovrebbe rappresentare gli interessi e i desideri della società, ma il nostro ministro dell’agricoltura sembra avere una malattia viscerale sulle questioni che riguardano il latte e il formaggio plant-based”.
L’attivista fa riferimento ai numerosi e-commerce che hanno ricevuto diffide perché i loro prodotti a base vegetale non possono chiamarsi “latte” e “formaggio”.
“Dovrebbero pensare che, evidentemente, se certe persone si comprano quei prodotti è perché non ne vogliono di altri, a prescindere dal nome: per me, da domani, lo potete chiamare anche ‘bu-bu-bu’ e lo comprerò lo stesso”.
Guardando a un contesto internazionale:
“l’Italia è ancora molto indietro da questo punto di vista”, afferma Nanni: ”In Paesi come l’Inghilterra, vengono forniti incentivi agli allevatori che vogliono convertire le loro fattorie di latte in aziende che producono alternative vegetali”.
Basta pensare proprio alla questione dei prodotti caseari: in Unione Europea, l’Italia è il Paese che applica l’Iva maggiore al latte vegetale, pari al 22 per cento, perché viene considerato un bene di lusso.
Al contrario, il latte vaccino beneficia di un’aliquota ridotta, intorno al 4 per cento, in quanto ritenuto un bene di prima necessità. Con una differenza di tassazione del 450 per cento.
“Insomma, con la scelta, si trasmette un messaggio politico potentissimo, anche se non si è attivisti”, conclude Nanni sul tema: “Indirettamente, lo si fa attraverso ciò che si mangia o non si mangia, ciò che si indossa o non si indossa. Tutto questo mette in discussione numerosi principi legati alla politica: se tutti noi smettessimo di comprare il latte, il nostro ministro potrebbe fare tutte le leggi che vuole, ma quel determinato prodotto non lo acquisterebbe più nessuno. Semplicemente bevendo il cappuccino di soia al bar, tu stai già facendo una rivoluzione”.
Genova: “vegano” sì, ma (per ora) solo come anagramma
Secondo Tiziana Nanni, Genova non è per niente una città amica degli animali: “pensiamo all’acquario, che è il nucleo turistico cittadino, ma anche allo scenario politico attuale, che è molto vicino ai cacciatori. Il cinghiale, ad esempio, stava scomparendo dal territorio ma, non avendo più un obiettivo a cui sparare, vi è stato reintrodotto e, ora, le persone se ne lamentano senza conoscere i motivi dietro questo sovraffollamento”.
Inoltre, come ricorda la volontaria di rIcerCare, la Liguria è la regione italiana con la più alta percentuale di ZAC (Zone di Addestramento per Cani da caccia).
“Rispetto ad altre zone d’Italia, la Liguria prevede meno iniziative vegane e antispeciste – continua Nanni – In più, la classe politica non è mai stata d’aiuto”.
Basti pensare all’edizione del 2024 del Festival della Scienza, dove l’Istituto Valorizzazione Salumi Italiani ha portato un’attività per mostrare gli aspetti organolettici, chimici e fisici della produzione di salumi, anche se la carne rossa è classificata come cancerogena e ha un impatto negativo sull’ambiente.
O ancora, i mercatini biologici in piazza De Ferrari, in cui si promuovono prodotti a chilometro zero, ma non plant-based.
“Se in Liguria abbiamo piccole realtà amiche degli animali, è perché sono partite da noi, che ce ne siamo fregati delle tradizioni della caccia e della pesca, tipiche della nostra regione”, afferma Nanni.
Ma per ottenere dei risultati ancora più concreti che possano cambiare la società in cui si vive, è importante il sostegno politico:
“non andate a cercare le associazioni, i rifugi e queste realtà solo prima delle elezioni. Veniteci a bussare sempre, manteniamo le relazioni, collaboriamo tutto l’anno e non solamente quando serve il voto. Altrimenti, è inevitabile pensare che l’obiettivo è solo quello di strumentalizzare la causa: il partito di turno si fa portavoce delle mie problematiche e, se ottiene il voto, finisce lì”, conclude Nanni sul tema.
Mangiare eticamente: alcune delle principali realtà plant-based nazionali
Tra le principali realtà genovesi, Il CashewFicio, un’azienda artigianale che produce formaggi in chiave 100% vegetale, a base di anacardi.
“Il focus dell’attività non è realizzare prodotti identici al formaggio, ma alternative buone e che appaghino allo stesso modo – afferma Francesca Cardamone, co-fondatrice de Il CashewFicio – Il nostro motto è proprio quello di creare nuove tradizioni”.
Come racconta ancora Cardamone, all’inizio della loro attività, sei anni fa, hanno riscontrato ostilità e diffidenza da parte dei consumatori. Adesso:
“si è aperta maggiormente la mentalità e più persone si approcciano a un’alimentazione plant-based, mentre prima, soprattutto a Genova, molti non sapevano nemmeno cosa significasse essere vegani”.
Secondo il report italiano di Eurispes, nel 2018, i vegani rappresentavano solo lo 0,9 per cento della popolazione. Nel 2024, sono arrivati a toccare circa il 2,3 per cento.
Una percentuale esigua, ma in crescita. “Abbiamo una clientela mista – dichiara Cardamone – Non solo vegani, ma anche persone intolleranti al latte o, semplicemente, curiosi che vogliono variare la propria alimentazione”.

Proprio per avvicinare questi ultimi, non vegani, al veganismo, “il cibo è importante, dato che la prima cosa che ti viene chiesta è cosa si può mangiare – spiega Federico Ceccattini – Serve a dimostrare che, ovviamente, sono vivo, faccio sport. Anche se è già la scienza a dire che la dieta plant-based è salutare e la più naturale per la nostra biologia”.
Alla fine, come spiega l’attivista, “si può essere vegani in ogni luogo. All’epoca dei nostri nonni, la loro nutrizione era fondamentalmente vegana. Ancora oggi, alla base dell’alimentazione umana ci sono legumi, cereali, frutta e verdura”.
E, per il rappresentante di AmicEarth, la spiegazione è semplice: “basta guardare intorno a noi, la nostra terra. La percentuale di piante è molto superiore rispetto a quella di animali”.
Ancor più importante, però, è il lato sociale della questione, che potrebbe diminuire la resistenza sociale alla causa: “poter andare in pizzeria con gli amici e poter prendere la pizza con la mozzarella vegana significa non sentirsi esclusi, non rinunciare a niente”.
Anche secondo Francesca Cardamone, il cibo “è un modo per far conoscere al mondo questa possibilità di continuare a mangiare bene, con prodotti saporiti, ma in una nuova chiave vegetale e, soprattutto, etica”.
Per lei, diventare vegani significa “guardare dentro sé stessi e capire, nel momento in cui si viene a sapere cosa c’è dietro il cibo, se si vuole continuare a contribuire alla sofferenza animale e alla crisi ambientale, o meno”.
Ma, come ricorda Ceccattini, “il cibo senza un’educazione alla base non ha valore”.
Nonostante il numero crescente di proposte plant-based in commercio, ancora oggi non è facilissimo trovare ovunque alternative:
“quando abbiamo iniziato noi, era difficile trovare alternative cruelty-free di alta qualità – racconta Francesca Cardamone – Ora, invece, comincia ad esserci qualcosa in più”.
Secondo Ceccattini, Genova non è come le grandi città, dove ci sono molti locali con più scelte vegane, ma, anche “se qua è più difficile, la città offre soluzioni interessanti: abbiamo ristoranti vegan friendly e alcune realtà vegane. Anche se poche, sono forti sul territorio”.
Questo perché la maggior parte delle persone all’interno della ristorazione “sono carniste, a cui è stato insegnato un certo tipo di cucina – continua l’attivista – Se non si inseriscono le proteine di origine animale, sembra che il piatto non abbia valore. Di solito, chi cucina per vivere deride la scelta perché devono mettersi in discussione, non solo come esseri umani, ma anche nel proprio lavoro”.
“Rivolgo a tutti un invito – conclude Tiziana Nanni – Continuate a indagare, mettetevi in gioco, create reti. Non serve necessariamente diventare attivisti, ma in generale vi invito a essere attivi in qualsiasi forma: viviamo in una società che vuole farci sentire inutili, ma abbiamo pur sempre un peso e possiamo scegliere di fare qualcosa di positivo”.
In fin dei conti, come ricorda Federico Ceccattini, “la nostra morale è già vegana: sono le nostre azioni che non corrispondono. È, quindi, fondamentale riallineare le due cose, per poter tornare a definirci col termine umano”.
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Foto di Ivana Milakovic
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