BORDI | Pretty visitors

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“Bordi”: la nuova rubrica wall:out, che racconterà storie ai margini della città di Genova.
27 Settembre 2023
3 min
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Nota di redazione: “Bordi” apre con “Pretty visitors” un pezzo per immergervi nell’atmosfera e farvi rapire dallo stile narrativo che vi accompagnerà in questo viaggio ai margini (al centro?) della società.

Porto nel ventre il dolore del mondo.
È una questione di curiosità e di argine basso.
È che a Genova, anche le emozioni, sono torrentizie.

Da poco i glicini decorano i muraglioni delle strade, che scendono verso il mare come fiumi immobili di asfalto. Testa e coda delle ore di sole è solo profumo di acacia. I parcheggi del centro si riempiono in un attimo, come i bagnasciuga in estate.

Se non fosse per i rumori, la vista di quel disordine organizzato sarebbe anche rassicurante; non dico piacevole. Però calma, perché fa sentire a ogni piccolo ingranaggio di appartenere a un sistema. Che odia, che rifiuta per due settimane ad agosto, che alimenta con la codardia che cementifica la routine. Eppure lì si riconosce, si integra perfettamente e ne dà un senso, come spazzola e bastone in una scopa.

BORDI | Pretty visitors
Foto di Mattia B.

Qui, invece, non ci sono più i glicini della circonvallazione, non arriva il profumo di acacia a chiederti di non rincasare, né le bouganville feroci dell’Aurelia o gli oleandri in fiore che accompagnano al mare.

Fino al tramonto, qui, sono solo colori, luci e sacchetti sui fianchi come cavalli bardati. Cumuli di scontrini nelle tasche a far perdere chiavi, numeri che squillano e rimbalzano a ogni attraversamento, tra un semaforo e un bus.

Eppure questo è un tempo in cui servirebbero solo parole.

Parole di riconoscenza, di gratitudine, di ascolto. Preghiere laiche per una salvezza civica. E invece sono i silenzi dell’indifferenza a farci inciampare a ogni tentativo di passo, di incontro.

Dove sono le parole in mezzo a tutte queste persone?

Sento il bisogno di sentirmi vivo e umano dentro questo grande bingo che è il centro di Genova. Tutte le vie, qui, hanno nome di poeta: Dante, D’Annunzio, Carducci, Ceccardi e Petrarca.

Dove sono, però, le loro voci necessarie?
Rimangono solo immagini.

Così vedo un uomo, più adulto di quanto sia vecchio; tra poco ripartirà la transumanza commerciale dopo il pranzetto: vacche grasse da mungere in pascoli piastrellati. Si trova davanti a una serranda abbassata e ha creato un piccolo tappeto da preghiera con il cartone di uno scatolone da pacchi, indossa scarpe e abiti umili.

Rivolto contro il muro in direzione di una banca, nascosto dal fallimento di un esercizio commerciale ormai abbandonato: prega, forse verso La Mecca, forse no, forse in orario, forse no. Forse sa che lo sto guardando e ha il pudore elegante di chi cammina su ferite di guerra.

Si muove con grande gentilezza, come a dire “non posso che essere questo, sono innocuo”.

Cerca raccolto in se stesso la forza per reprimere la disperazione. La vedo bene nel sacchetto azzurro in plastica dal quale fuoriescono fazzoletti, portachiavi, calzini. Stretto nell’illusione di un’educazione superiore alla divinità, in una tradizione che lo faccia sentire a casa.

Ma è grande la differenza tra accogliere e addomesticare, tra ospitare e assoggettare.

Rivedo una famiglia rom in attesa che lo sgombero delle proprie case termini. È solo qualche quartiere più in là ma si tratta della stessa città, della stessa gente che guarda, ormai normalizzato, il dolore degli altri. Sono immagini che si toccano e si susseguono. Sono il film che questa città non vuole vedere.

Il pudore e la sacralità di quell’uomo che prega, schiacciato dal pregiudizio dei passanti e inginocchiato davanti a Dio sembra la scenografia barocca, sporca e brutta, di quella elegante e stereotipata caratterizzazione gitana: il bastone che poggia sulla gamba del vecchio grosso, scuro e dai folti baffi bianco masticato, come la neve ai lati delle strade.

I capelli sfuggono dal Borsalino, mentre sta rigorosamente seduto su una sedia ad aspettare. Accanto una donna anziana, una topografia altimetrica di rughe alte e profonde e due occhi d’acqua come laghi selvaggi dentro a valli vulcaniche.

Una donna incinta, trasandata e gonfia, inebetita dall’impotenza della propria vita, siede su un materasso matrimoniale sottratto alle ruspe e adagiato sul breve pendio dell’aiuola lungo la statale.

Un’altra donna aspetta, stretta nelle ossa di spine, con gli occhi di bestia selvatica stancata dal calore del giorno.

Stanno in posa sradicati violentemente dalla loro natura. Alle loro spalle, il mercato della frutta racconta la medesima dinamica.

Vedo gli stessi occhi, grigi come i capelli del vecchio rom e come il cielo che traccia i confini verso l’alto, di chi si affaccia alle sbarre a cercare i figli e le amanti nei volti generali di chi vive là fuori. Così forte il desiderio di vedere, di abbracciare, che ogni madre diventa la propria, così ogni ragazza, ogni voce.

Ma questa è un’altra storia. Promesso.

Rifugiati dentro ai cappotti, con i nostri occhi pieni di paura e di rabbia. Perché non conosciamo. Guardare i più deboli e renderli colpevoli, così da non condividere con nessuno le proprie fortune.

Che siano i benvenuti, invece, i mostri; che escano dagli angoli non illuminati, che sfilino per le strade del centro in un carnevale critico.

Che tutti vi possano incontrare.

Che ognuno di noi abbia modo di conoscere il mondo dei bordi. E farne il nuovo centro.

Pretty visitors
Foto di Mattia B.

Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su foto di Mattia B.


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Mattia Battistelli, nato nel 1989 a Genova, dove vive felicemente, dove scrive appena può e dove lavora dopo una laurea in legge, un master in criminologia e un’abilitazione da avvocato. Ha realizzato insieme a due amici un progetto di ricerca, sotto forma di reportage narrativo, sulle carceri sarde: #SARDEGNA#. Scrive racconti, per unire la passione per le storie alla sua curiosità. Tutto questo lo fa muovere.

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