Si dice che la sfortuna degli artisti sia la propria fortuna, ma è sempre così?
È indubbio che ogni artista abbia messo le proprie emozioni e il proprio vissuto nelle proprie opere ma, legare gli artisti alla propria condanna, al proprio dolore, mettendoli in relazione al proprio passato per sempre, è corretto?
Questo è stato analizzato durante l’assemblea del 13 gennaio organizzata dal movimento nazionale “Non Una Di Meno” di Genova, il cui oggetto di discussione è stato la mostra “Artemisia Gentileschi. coraggio e passione” ospitata da Palazzo Ducale.
È corretto collegare tutto il lavoro della pittora in relazione all’episodio di violenza sessuale subito?
Molte persone si sono poste questa domanda perché la mostra sembra orientata tutta intorno all’episodio di violenza subito, come se si volesse alludere al fatto che Artemisia debba molto del suo successo all’accaduto.
In questa assemblea, storiche e studentesse d’arte, insieme a sociolinguisti e all’associazione “Mi Riconosci?” hanno analizzato nel dettaglio il linguaggio dei pannelli e la disposizione delle sale all’interno della mostra, individuando così due nuclei tematici all’interno della narrazione: quello della violenza subita e quello della carriera lavorativa dell’artista.
(Articolo di wall:out “Artemisia Gentileschi. Coraggio e Passione”. Riflessioni sulla mostra genovese)
Il filone della violenza risulta quello ‘principale’ poiché ricorre ad ogni sala, mentre il filone narrativo della sua carriera, oltre ad essere stato trattato con superficialità, non comunica con il primo nucleo tematico.
Come riporta un pannello all’interno della mostra: “artemisia gentileschi è ricordata soprattutto per lo stupro subito ma invece è stata una grande artista.”
Perché si conosce il lavoro di questa artista solo per via del trauma subito?
Valentina Crifò, educatrice museale, racconta di esperienze di visite guidate che sono state condotte durante una passata mostra su Artemisia a palazzo Reale nel 2011, nelle quali è stato preferito omettere il racconto dell’evento traumatico, ma la domanda sorgeva sempre fra il pubblico.
Le abbiamo quindi chiesto:
Pensi che la domanda sull’evento traumatico dell’artista sia stata posta a causa della narrazione che viene fatta a scuola?
V.C. “Non credo sia dovuto tanto a quello, credo che il pubblico abbia una tendenza a essere curioso della aneddotica degli artisti, in particolare se si parla di donne.
Il problema è che nell’incasellarsi all’interno della storia dell’arte, le donne hanno sempre un giustificativo di tipo biografico, mai incasellate all’interno come simbolo di eccellenza o di momento storico; sembra quasi che le donne per prendersi un posto nella storia debbano avere una sorta di trama tragica”.
Della disposizione delle sale è stata criticata la sala immersiva, abbiamo chiesto approfondimenti a Valentina Crifò.
Secondo te la mostra non può essere stata concepita anche come una denuncia sociale del problema della violenza sessuale?
V.C. “Questa mostra non ha avuto nessun tipo di intenzione di agganciarsi con la realtà. Questo è quello che con NUDM abbiamo portato avanti, il fatto che non si può proporre ad un pubblico un’esposizione in cui si parla di violenza sessuale senza le dovute accortezze.
A mio parere, se si vuole affrontare un argomento del genere oggi, questo va trattato cercando di capire che è un elemento interdisciplinare ed essendo tale, c’è bisogno di figure che affianchino chi si occupa della curatela, persone esperte di violenza di genere e di sociologia. In questa mostra ciò è mancato, infatti quello che è successo è che ne ha sortito una narrazione sbagliata.”
Emanuela Abbatecola, sociologa presso UniGe e direttrice della rivista About Gender ha commentato il pannello “le donne minacciate di Artemisia”, che introduce una sala in cui vi sono varie opere che raffigurano Paolo e Francesca della Divina Commedia, Cleopatra e Betsabea.
Tale pannello si riferisce alle figure con la seguente espressione:
“sono donne fragili, prigioniere di relazioni che non hanno saputo governare, al pari di Artemisia, sopraffatta dalla volontà di un uomo che dichiara di amarla, ma le rovinerà la reputazione”.
La frase è evidentemente fuori luogo, come spiega la sociologa, perché si rifà all’ideale malato secondo cui l’uomo fa violenza perché ama, dando invece la colpa alle donne che non hanno saputo gestire le relazioni.
Comunicare con il presente per cambiare il futuro
La mostra, tralasciando alcune frasi dei pannelli e la disposizione di alcune sale, è molto bella, avrei preferito personalmente un racconto più lineare a quello che è la vita artistica della pittrice e avrei preferito che il racconto del processo fosse concentrato all’interno di una sola sala.
Il processo è interessante da un punto di vista giuridico, essendo il primo caso di stupro denunciato della storia di cui abbiamo una documentazione completa, bisogna quindi dargli la giusta rilevanza, senza che il suo racconto sovrasti quello della vita e del lavoro della pittrice.
Non è necessario trovare un nesso che colleghi le opere all’artista stessa, l’arte è fatta per essere ammirata, è una fuga dalla realtà, troppo ordinaria a volte, che ci circonda.
Ci vuole un’educazione al rispetto del prossimo che deve partire in prima persona dalle istituzioni. In un periodo storico come quello che stiamo vivendo, una rivoluzione da questo punto di vista diventa necessaria.
Un piccolo gesto, come quello di una collaborazione fra sociologi e storici dell’arte, potrebbe essere l’inizio di una rivoluzione all’interno della storia dell’arte, l’arte che comunica con il presente per cambiare il futuro.
Immagine di copertina:
NUDM fa il riepilogo di ciò che si è detto in assemblea. Foto di Erika F.
Scrivi all’Autorə
Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.