Città sicure, per chi?

Città sicure, per chi?

La sicurezza negli spazi pubblici è anche una questione di genere.
25 Novembre 2025
2 min
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Non poliziotti per strada, ma illuminazione diffusa. Non telecamere, ma spazi vissuti e frequentati. Non volanti della polizia che fanno la ronda, ma mezzi pubblici più frequenti di notte per rimanere meno sole ad aspettare.

Indagare la sicurezza negli spazi pubblici significa capire come la città è percepita da chi la vive e come questa percezione cambi a seconda del genere.

Le ricerche urbane mostrano che donne e altre soggettività marginalizzate provano più paura degli uomini nell’attraversare lo spazio pubblico: questo induce a rinunce, percorsi alternativi, e quindi una geografia urbana fatta di limiti e autoesclusioni.

Come spiega il sociologo Bauman, la sicurezza include: security (sicurezza sociale, legata a stabilità ed affidabilità), certainty (sicurezza globale, legata alla prevedibilità dell’ambiente e la posizione dell’individuo in esso) e safety (protezione fisica). 

Nella pianificazione neoliberista, si è affermato il modello securitario basato su videosorveglianza e controllo, militarizzazione delle strade, che però produce esclusione invece che libertà.

L’articolo “Progettare le città insieme alle donne” scritto da Julia Vié, pubblicato su Nrc e ripreso da Internazionale, racconta bene l’esito dell’inadeguatezza delle politiche securitarie nel rispondere al bisogno di sicurezza, in particolare delle donne, nei Paesi Bassi. 

In questo articolo, l’urbanista Nourhan Bassam, autrice di The Gendered City (La città sessista) osserva che in molte aree urbane si verifica “un tipico caso di no eyes on the street”: portoni chiusi, strade vuote, visuali ostruite.

Spazi pensati senza chiedersi chi li userà davvero.

Non è un caso che, come riporta l’articolo, “i centri urbani sono costruiti pensando al loro progettatore originario: l’uomo”. I rischi sono alti e le conseguenze possono essere tragiche. 

20 agosto 2025: è il caso del femminicidio di Lisa, 17 anni, ad Amsterdam, in una zona ciclabile isolata, che ha scatenato le proteste della popolazione, prevalentemente donne, che sono scese in piazza a ribadire che quel luogo era percepito come insicuro da tempo. 

Eppure la risposta istituzionale ricade spesso sulle “misure di sicurezza formali”, spiega Bassam, “per esempio le videocamere”, che però non aumentano la percezione di sicurezza nel momento in cui serve.

Città sicure, per chi?
Foto di Odalv

Le soluzioni esistono

Le soluzioni esistono e non sono rivoluzionarie, ma anzi si tratta spesso di interventi architettonici puntuali e forme organizzative della vita urbana: ove possibile più attività che affacciano sullo spazio pubblico, aperte in orari differenziati, che illuminano la strada, pensiline delle fermate trasparenti (senza i tabelloni pubblicitari che ostacolano la visuale), percorsi senza ostacoli visivi, parchi illuminati, con visuale ampia e aperta.

La progettazione degli spazi urbani è quindi fondamentale, ma purtroppo da sola non basta. Dev’essere accompagnata da un cambiamento culturale e sociale.

Come sottolinea Krisztina Varró nell’articolo pubblicato su Nrc e ripreso da Internazionale, “la città non è solo un ambiente fisico, è anche un ambito sociale”: senza affrontare le disuguaglianze strutturali della società, riguardanti le responsabilità della cura, il lavoro, il welfare, nessuna politica urbana sarà davvero incisiva.

Spostiamo quindi la sicurezza dalla logica della protezione a quella dell’autodeterminazione, rivendicando il diritto di tutte e tutti ad attraversare la città liberamente. 

Una città più sicura non è una città sorvegliata: è una città che guarda, e che si prende cura.

Immagine di copertina:
Foto di Marcel Strauß


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Martina P.

Genovese di nascita e di cuore, latino-americana nell’anima e spagnola di adozione. Nel ruolo di architetto si occupa di progettazione partecipativa di processi urbani, architettonici e comunitari. Ha vissuto e lavorato tra Europa e Sud America. Le piace fotografare gente, città, città con la gente.

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