Cosa hanno in comune lo scrittore francese Alexandre Dumas e il quartiere genovese di Sampierdarena? Verosimilmente nulla, però possiamo provare a contare i gradi di separazione che portano dall’uno all’altro.
Il conte di Montecristo fu pubblicato tra il 1844 e il 1846. Si tratta di un arco temporale e non di un anno solo perché parliamo di un romanzo a puntate: ogni settimana un nuovo capitolo compariva sul Journal des débats.
Il formato influenzava profondamente la narrazione: per mantenere alta l’attenzione, gli autori ricorrevano a colpi di scena e finali sospesi, in un crescendo di tensione.
Amori contrastati, tradimenti, intrighi politici e lotte di classe: temi che appassionavano un pubblico vastissimo. Proprio per il suo successo su larga scala, questo genere veniva però bollato come “minore”, di basso livello letterario.


Il cosiddetto romanzo d’appendice non fu un fenomeno esclusivamente francese.
In Inghilterra, nello stesso periodo, fiorirono i penny dreadful, fascicoli economici venduti a un penny: anch’essi seriali, sensazionalistici, e relegati dalla critica alla “bassa” letteratura.
In Italia, arrivò dapprima in traduzione, poi si consolidò come produzione originale.
La scrittrice Carolina Invernizio (Voghera, 1851 – Cuneo, 1916) fu soprannominata “regina del romanzo d’appendice”: scrisse oltre centoventi romanzi, amatissimi dal pubblico e derisi dalla critica.
E arriviamo infine a Genova, dove la pubblicazione a puntate trovò una declinazione peculiare: l’uso del dialetto genovese.
Una testimonianza straordinaria è il romanzo Ginna de Sanpedaenna, apparso nel 1883 sul bisettimanale satirico O Balilla, in ben 104 puntate.
L’autore resta anonimo, ma il linguista Fiorenzo Toso ne ha attribuito la paternità a Giuseppe Poggi, allora direttore del giornale.

La storia segue le vicende di Ginna e Loensin, due giovani genovesi emigrati in Sudamerica. Tra scontri, tormenti e peripezie, convoleranno infine a nozze. L’azione si svolge tra Buenos Aires e Rio de Janeiro, e il dialetto genovese si intreccia alle lingue straniere, restituendo un’inedita miscela linguistica.
Il contesto delle emigrazioni liguri ottocentesche, intensificatesi soprattutto tra gli anni Settanta e Novanta, ci offre uno spaccato di vita comune a moltissimi genovesi dell’epoca. Il viaggio da una sponda all’altra dell’Oceano era esperienza condivisa, talvolta ripetuta più volte nella vita.
I “genovesi d’America” tendevano a mantenersi chiusi nelle proprie comunità, preservando tradizioni, lingua e abitudini culinarie.
Come scrive Toso nell’introduzione:
“Comunanza di lingua e d’origine sostituiscono, tra gli emigrati, i vincoli parentali che nella società ligure ottocentesca sono fortissimi”.
Possiamo considerare Ginna de Sanpedaenna un romanzo d’appendice sperimentale, un unicum nel suo genere, poiché adatta un modello narrativo di respiro europeo a una realtà locale.

In un periodo, la seconda metà dell’Ottocento, in cui migliaia di genovesi partivano per l’America, ritrovare un racconto in dialetto mentre si era dall’altra parte del mondo significava riconoscersi in un linguaggio comune, sentirsi parte di una comunità, anche a un oceano di distanza.
Immagine di copertina:
Il Conte di Monte Cristo. Fonte picryl.com
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