BORDI | Pietre d’inciamperò

BORDI | Pietre d’inciamperò

Una camminata tra le pietre d’inciampo di Genova, per riflettere, perché nell'indifferenza hanno deportato e nell'indifferenza stanno bombardando.
27 Marzo 2024
7 min
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Per Silvia Longatti

Caro Mattia,
è molto che penso di scriverti. Ogni giorno che passa mi sembra di essere sempre più in ritardo.

La mattina in macchina, in coda; in attesa di un tavolo libero, a pranzo. Sul divano, la sera, illuminata a intermittenza dai cambi di regia, dal carosello di pubblicità.

Tra un messaggio e una telefonata, un gossip e un allarme.

Tutti i giorni sono uguali, nel mio bene; e nel loro male. Giorni perfetti, come il film che abbiamo visto insieme (Perfect Days) e io ti ho detto «che tristezza però, senza relazioni!» e tu mi hai detto «è lui l’albero mamma, lui è quello che protegge tutti stando fermo e non può scappare dal suo destino perché le radici lo tengono lì».

Ci ho pensato questa mattina. Mentre ti immaginavo di nuovo tra i tavoli di un bar dopo dieci anni dalla laurea, non più così giovane ma determinato a imparare meglio la lingua e poter cercare un lavoro più stabile.

Eri anche tu un albero, qui a casa, ma tutta l’indifferenza di questo paese ti ha tolto luce. E così ti sei fatto bonsai per poter sopravvivere alla tua diaspora. Bisognando di meno acqua e meno luce, accontentandoti di primavere che promettono estati senza frutti.

Ci ho pensato questa mattina. Mentre verbalizzavo accanto alla mia giudice. Mi ha fermato la mano, quella che suona di più dei miei bracciali, ha guardato l’avvocato silenziandolo con un respiro lungo per drizzare il collo. Poi mi ha stretto il polso, continuando a fissare quello disorientato e, poco prima che potessi capire, gli ha detto: «avvocato, lei sa meglio di me che non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».

Mi ha lasciato il polso e ha rivolto lo sguardo allo schermo del mio pc; ho eseguito l’ordine e ho verbalizzato testualmente.

L’avvocato ha capito che doveva iniziare a lavorare sull’appello.
Io ho capito perché te ne sei andato.

Ma quando si è consapevoli che si sta assistendo a un’ingiustizia, come ci si deve comportare? Obbedendo alla legge o al tribunale di sé stessi?

Io, alla mia giudice, gliel’ho detto una volta, mentre facevamo un processo per una persona che aveva provato a scappare dai domiciliari. Stavamo prendendo il caffè e le ho detto:

«dottoressa, secondo me una persona è giusto che cerchi sempre la libertà, anche quando sa di aver sbagliato; l’evasione è giusto che sia un reato, così la vendetta. Ma fuori di qui questi non sono reati, si chiamano divertimento e mercato».

Lavoro per questo ministero da trent’anni e non so ancora distinguere la giustizia dalla legge; forse, il fatto che fino a qualche anno fa si chiamasse “ministero di grazia e giustizia” è proprio perché nessuno sa cosa sia, in fondo, la giustizia.

E così la parola di un uomo può ribaltare anni di norme, sentenze, giurisprudenze e contributi unificati. La grazia arriva dove la giustizia è impotente, come dio con la scienza.

Ma alla fine hanno tolto la parola “grazia” dal nome, per convincersi di non poter sbagliare mai.

Eppure basta camminare per le nostre strade per osservare i nostri errori: primo tra tutti, l’indifferenza verso la sofferenza degli altri.

Te ne sei andato per questo. Ma questo non ti rende meno coinvolto, piuttosto lontano dal giudizio di questa città, come un latitante.

Mi viene in mente il giovane amico di Primo Levi, elogiato in “Se questo è un uomo”: si chiamava Alberto ed era entrato in lager “a testa alta”, “illeso e incorrotto”. Dice:

Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. (…). Sa chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo”.

Sai che questa città, negli anni quaranta, ha visto deportare 261 suoi cittadini solo perché esistevano delle leggi che lo ordinavano?

E io mi domando: ma come è stato possibile che nessuno lo abbia impedito, si sia messo a urlare, a nascondere quella gente?

E io mi rispondo: è possibile nelle stesse forme con le quali lasciamo che centinaia di migliaia di bombe, finanziate dalla nostra vita quotidiana, uccidano migliaia di innocenti, milioni di speranze e un’unica parola: futuro.

Sono andata a trovare tutte quelle persone sulle quali si può inciampare. Per ogni luogo di inciampo ho scattato una foto: per immaginare l’ultimo loro momento di libertà e, insieme, farti vedere il silenzio di paura di un’intera città. Ma anche il coraggio di pochi.

Quello è il nostro silenzio. Quello è il coraggio che forse mi manca.

Immagina domani, in quelle terre promesse, quante pietre dovranno essere deposte; brilleranno tanto che si vedranno dal satellite. E le vedrai tu, anche se te ne sei andato. E le vedranno i nuovi, chiedendoti il perché.

Solo 20 delle 261 persone ebree deportate nei campi di concentramento e di sterminio, sotto il regime fascista e sotto quello nazista, sono ritornate a Genova.

Non tornarono Arturo Valabrega, Luciano Valabrega, Ida Foa e Bruno De Benedetti, arrestati nei pressi della frontiera italo-svizzera da un commilitone che riconobbe De Benedetti e lo denunciò mentre si trovava assieme agli zii Arturo e Ida e loro figlio Luciano. Deportati in differenti campi di sterminio, trovarono tutti la morte.

Non è tornato Riccardo Pacifici, che per seguire fino all’ultimo la propria comunità, in quanto rabbino capo, fu catturato con l’inganno dai nazisti e deportato ad Auschwitz dove morì con la moglie Wanda Abenaim e molti altri membri della famiglia.

Non ha fatto ritorno lo studente di architettura Giorgio Labò, catturato a Roma dalle SS tedesche e condotto nel carcere di via Tasso dove venne torturato e interrogato, senza rivelare mai nulla: venne fucilato senza processo insieme a nove altri partigiani da un plotone della Polizia dell’Africa italiana.

Non è tornato Francesco Moisello, arrestato in quanto collaboratore dei partigiani e poi detenuto a Marassi e a San Vittore. Deportato a Bolzano, quindi a Flossenbürg e poi a Hersbruck, morì nemmeno quarantenne.

Non sono tornati Emanuele Cavaglione e la moglie Margherita Segre che, con l’inganno di due delatori italiani, vennero arrestati, internati nel campo di Fossoli e trasferiti ad Auschwitz dove furono uccisi al loro arrivo.

La famiglia Polacco è stata tutta assassinata; era custode del tempio israelitico. Venne arrestata il 3 novembre 1943 quando le truppe naziste fecero irruzione nella Sinagoga di Genova e costrinsero il custode Albino Polacco, sotto minaccia di morte per i suoi figli (di cinque e sei anni), a consegnare i registri anagrafici della comunità ebraica genovese e a convocare i membri per una presunta riunione.

Solo alcuni si salvarono grazie all’allarme di una donna che si era accorta della trappola: si mise alla finestra di casa sua, all’ingresso di via Bertora, e con ampi cenni avvisò chi si stava presentando alla Sinagoga, facendoli così scappare.

Non tutti, perché Marco Rignani non è mai ritornato dopo la razzia della Sinagoga. Aveva meno della tua età quando venne deportato e ucciso ad Auschwitz.

Non sono tornati Orazio Robello, Bellina Ortona, Italo Vitale, Ercole De Angelis e l’intera famiglia Sonnino; e tutte le persone che ancora non hanno una pietra d’inciampo ma i cui nomi appaiono nell’ingresso del vecchio campo ebraico del Cimitero di Staglieno.

Sono stata anche qui

Al punto informativo, un impiegato molto disponibile e preparato mi ha indicato sulla mappa i due campi di sepoltura ebraica.

Quello vecchio, e più tradizionale, dove si trova il portale dedicato a Riccardo Pacifici e ai deportati dagli ubbidienti delle leggi razziali; quello nuovo, sul crinale, che prima di essere dedicato ai defunti ebrei era occupato dai morti tedeschi.

Poi i morti dei tedeschi li hanno portati in Germania e lì ci hanno messo gli ebrei “nuovi”, perché gli ebrei non si riesumano, una volta sepolti lo stanno per sempre, mi ha spiegato.

Poi gli ho chiesto dove si trovano i morti musulmani, perché ho letto che nel 2000 un gruppo di tunisini ha chiesto un settore per i loro morti, chiedendo solo che potessero essere sepolti verso sud, sud-est. Volevo vedere se si parlavano tra loro, questi morti.

Campo 48, soprattutto. Poi anche in giro e nel “campo covid”. I nostri cimiteri sono un carotaggio della nostra storia, in effetti.

Il campo 48 si trova subito sopra il campo ebraico “nuovo”. C’è un muro che li divide? No, solo il dislivello, mi ha detto l’impiegato.

Gli ebrei mettono i sassi sulle tombe, non i fiori: è un simbolo delle origini del popolo ebraico, le zone aride del deserto. I musulmani si distinguono solo per la lingua delle loro scritte, l’acqua che dondola e la direzione: nei cimiteri, come nel Mediterraneo, le storie si leggono al contrario.

Non smettere di credere nell’umanità, non smettere di lottare per lei

Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. È scritto sul nostro codice penale.

Ovunque tu sia, ovunque tu voglia andare, ti chiedo: questa legge vale anche per la Storia?

Perché nell’indifferenza hanno deportato e nell’indifferenza stanno bombardando e possiamo voltarci dall’altra parte, fuggire oppure far finta di nulla tra un messaggio e una telefonata, un gossip e un allarme. Ma le responsabilità storiche non necessitano di estradizioni o di mandati internazionali.

Io voglio solo dirti questa cosa: non smettere di credere nell’umanità, non smettere di lottare per lei.

Ho bisogno di dirtelo per togliermi di dosso questa sensazione appiccicosa di ritardo. E pensare di sorridere delle bellezze senza la minaccia della colpa.

Quando sarai tentato di arrenderti a una delle nostre “belle epoque” pensa all’ultima frase di Primo Levi per introdurre la sua testimonianza più famosa. Sta tutta qui la necessità della lotta:

Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato”.

Mi manchi,
Mamma

Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su foto di Mattia B.


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Mattia Battistelli, nato nel 1989 a Genova, dove vive felicemente, dove scrive appena può e dove lavora dopo una laurea in legge, un master in criminologia e un’abilitazione da avvocato. Ha realizzato insieme a due amici un progetto di ricerca, sotto forma di reportage narrativo, sulle carceri sarde: #SARDEGNA#. Scrive racconti, per unire la passione per le storie alla sua curiosità. Tutto questo lo fa muovere.

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