Era allarmato Sergio Mattarella quando lo scorso 3 maggio 2022 ha definito la libertà di stampa “il termometro della salute democratica di un paese”. Un termometro che purtroppo negli ultimi decenni inizia a far registrare temperature febbricitanti.
Il Bel Paese infatti è sprofondato nelle classifiche di libertà di stampa redatte da Reporter sans frontier, arrivando nel 2022 al 58esimo posto, per poi “risalire” al 41esimo nel 2023, sotto a Montenegro, Argentina e Macedonia del Nord.
Il deterioramento del diritto di libertà di stampa (e del nostro diritto di essere informati) è ormai storia di lungo corso e ha tre principali cause.
La prima causa è normativa
Sebbene la nostra Costituzione all’articolo 21 reciti “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure”, nei fatti si incontrano molteplici ostacoli alla sua applicazione concreta.
In tutto il mondo l’informazione libera si scontra con un fenomeno piuttosto recente di “censura”: le SLAPP, acronimo che sta per strategic lawsuits against public participation, meglio conosciute in Italia come querele temerarie.
Le SLAPP sono delle azioni legali intraprese da soggetti di potere (politici, multinazionali, colletti bianchi, affiliati alla criminalità organizzata..) non per ottenere giustizia, ma con lo scopo di intimidire il querelato.
Quest’azione legale comporta per chi lavora nell’informazione spese processuali spesso insostenibili e quasi mai rimborsate. Un soggetto che dispone delle risorse economiche necessarie, così facendo raggiunge l’obiettivo di scoraggiare chiunque voglia criticarlo pubblicamente.
Alcuni giornali arrivano ad autocensurarsi e a rifiutare articoli, se questi toccano personaggi noti per essere querelanti seriali. Non basta infatti svolgere con precisione il lavoro da giornalisti per essere al riparo dalle querele e dalle condanne vista l’elevata soggettività e imprevedibilità dei processi per diffamazione.
La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha più volte condannato l’Italia per non avere depenalizzato il reato di diffamazione.
La nostra legislazione prevede ancora la detenzione per i giornalisti o in alternativa sanzioni economiche spropositate.
Le azioni della Corte europea però non hanno suscitato le reazioni sperate nei nostri legislatori che hanno evitato di affrontare il problema. La libertà di stampa infatti funge da sistema di controllo e di inchiesta nei confronti del potere che spesso si è rivelato infastidito da chi legittimamente si impiccia degli affari di palazzo.
Il caso più eclatante a livello mondiale è quello di Julian Assange, fondatore di WikiLeaks e più volte candidato al Nobel per il suo lavoro di informazione e di trasparenza globale (Ne abbiamo parlato qui: Caso Assange. Con il giornalista dissidente crolla anche l’Occidente libero).
Dopo aver pubblicato sulla sua piattaforma migliaia di documenti statunitensi secretati che testimoniavano fatti gravissimi, principalmente sull’operato americano nelle guerre in Iraq e in Afghanistan, fu indagato e “censurato” dagli Usa per cospirazione e spionaggio.
L’azione legale intrapresa dagli Usa è stata fermamente condannata sia dal segretario dell’ONU sulla tortura, sia dal Consiglio d’Europa, oltre ad aver suscitato forti movimenti di protesta popolare.
La seconda causa del deterioramento della libertà di stampa è economica
Il settore dell’informazione, nell’epoca del digitale, versa in una crisi profonda con perdite complessive di oltre due miliardi di euro in Italia nell’ultimo decennio.
Nell’era della digitalizzazione l’attenzione dei lettori diminuisce, gli stimoli si moltiplicano e monetizzare l’informazione di qualità diventa sempre più difficile. Si rincorre il titolo clickbait, dove il vero e falso rischiano di equivalersi perché la notizia che vale di più non è quella vera, ma quella che attira l’attenzione.
Peter Gomez ironizza così sulla situazione:
“prima col giornalismo di inchiesta ci potevi pagare gli altri rami di informazione, oggi invece posti i gattini sui social per ripagare i costi del giornalismo di inchiesta”.
La terza causa è la proprietà dell’informazione
La causa economica si lega inevitabilmente anche alla terza causa, quella della proprietà dell’informazione: dal momento che il settore è in perdita costante, chi possiede canali di informazione ha degli scopi che vanno al di là di quelli economici.
Essere possessori di reti di informazione e di divulgazione offre vantaggi notevoli in termini di condizionamento dell’opinione pubblica e quindi in termini di interessi e relazioni per il proprietario.
Il fatto che l’informazione nella stragrande maggior parte dei casi (con alcune nobili eccezioni) sia di proprietà di figure di potere e quindi soggiogata agli interessi personali del “proprietario padrone”, limita la libertà di espressione dei dipendenti che tendono infatti ad omologarsi ai suoi interessi.
Ne è un esempio la storia di Silvio Berlusconi, politico e allo stesso tempo proprietario di reti televisive e del Giornale (affidati poi al fratello, ai figli o a stretti collaboratori per evitare problemi con il conflitto di interesse) con cui è stato in grado di plasmare per trent’anni una larga fetta dell’opinione pubblica.
Per non parlare di quando Berlusconi al governo poté esercitare la sua influenza pure sulla Rai, indirizzando così l’intera comunicazione televisiva italiana.
Tutte e tre le cause di deterioramento della libertà di stampa sono chiaramente concatenate tra loro e stanno dissanguando l’informazione libera e indipendente nell’indifferenza generale.
Queste dinamiche stanno confermando ciò che profetizzò Max Weber nel 1919:
“per tutti gli stati moderni vale il principio che il giornalista va sempre più perdendo influenza politica, mentre il magnate capitalistico della stampa (…) ne acquista ogni giorno di più. (…) Presso di noi le grandi concentrazioni capitalistiche della stampa (…) hanno finora di regola tipicamente alimentato l’indifferenza politica”.
Immagine di copertina:
Foto di Markus Winkler
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