A vent’anni di distanza dai drammatici avvenimenti del luglio 2001 (articolo di wall:out C’è chi ha ancora paura degli elicotteri), la città di Genova si è ritrovata al centro di una serie di eventi mirati a ricordare quelle giornate e riflettere sulle loro conseguenze, grazie all’azione di una trentina di associazioni che hanno organizzato diversi momenti di incontro e memoria.
Il programma delle iniziative era così vario e fitto, e il tema così importante e attuale, che partecipare è divenuto quasi doveroso (articolo di wall:out Genova si prepara per il ventennale del G8 2001).
Certamente doveroso per una generazione come la mia – classe 1995 – che ha vissuto quegli eventi solo attraverso i racconti e le testimonianze di chi in quei giorni era in piazza.
Tanto più doveroso per chi, come me, ha sempre temuto il confronto con un tema così spaventoso, per la gravità dei fatti accaduti e per la familiarità con il territorio che ne è stato segnato.
Non ricordo come la mia consapevolezza sui fatti del G8 si sia formata per la prima volta, ma ricordo l’agitazione dei miei genitori nel tornare dalle manifestazioni, scampati per pochissimo ai pestaggi. L’immagine che si è creata nella mia coscienza di quei giorni resta inevitabilmente influenzata da quel ricordo, che si è sovrapposto a tanti altri racconti ascoltati durante questa settimana, in una somma di sensazioni che mi portano a temere chi invece dovrebbe difendermi.
Ho realizzato che, fino a quest’anno, ho inconsciamente evitato di approfondire l’argomento: ho sempre fatto a meno di leggere libri, guardare film e ascoltare testimonianze sui fatti del G8 di Genova, come se l’inconsapevolezza potesse in qualche modo tutelarmi. Fino a quest’anno la mia arma di difesa contro una verità difficile da sopportare è stato il voltarsi dall’altra parte, l’ignavia.
Certo, l’autotutela è preziosa e la mia serenità ne ha certamente beneficiato, ma essere una cittadina attiva e consapevole comporta anche scegliere di rinunciare a una parte della propria serenità per andare nella direzione di una società migliore.
Solo il risveglio collettivo delle coscienze può essere un punto di partenza per ottenere davvero la società che ci meritiamo.
Questi incontri sono stati un’occasione per affrontare finalmente le ricostruzioni dei fatti di quella settimana, accompagnate da riflessioni che sono diventate sempre più stimolanti con il passare dei giorni, in un accumularsi di idee che hanno dipinto un quadro completo di cosa è stato – e cosa speriamo sarà – il G8 di Genova del 2001 per la nostra città e per il nostro paese.
Di questi giorni, mi ha colpita in particolare la forza di chi ha vissuto tragedie personali, come la perdita di un familiare, in circostanze che in alcuni casi non sono ancora state chiarite.
Ho visto una forza incredibile – che non è stata però accompagnata da un desiderio di vendetta, ma solamente da una sete di verità e giustizia.
Ho ascoltato parole di condanna nei confronti di uno stato che troppo spesso fallisce, fallisce gravemente quando cessa di essere uno stato di diritto, quando si rende colpevole o complice di abusi sui diritti di chi lo abita.
Certo, una settimana di conferenze non è abbastanza, qualche migliaio di partecipanti sono pochi, il calendario degli eventi non ha circolato bene come avrebbe meritato.
Certo, si parla di polarizzazione e di generalizzazioni, e qualcuno reputa necessario disprezzare ogni singolo membro delle forze dell’ordine per poter pienamente condannare i fatti del 2001 – e c’è ancora chi crede che i manifestanti in piazza abbiano attaccato poliziotti e carabinieri con dei palloncini pieni di sangue infetto (articolo di wall:out Il G8 di Genova e quella fake news prima dell’epoca delle fake news).
Certo, il ricordo e l’indignazione non dovrebbero essere visibili solo una volta ogni vent’anni.
Certo, nessun esponente del governo e delle forze di polizia dell’epoca si è assunto la minima responsabilità, né si è scusato o quantomeno distaccato dai fatti, e le responsabilità penali individuali sono state – assai parzialmente – ricostruite, ma non abbiamo ricostruito nulla delle responsabilità politiche.
Certo, “le gravi violazioni dei diritti umani commesse in quell’occasione sono rimaste in molti casi impunite, perché non fu possibile identificare gli esecutori materiali delle violenze e non c’era ancora una legge contro la tortura”, come ha dichiarato Emanuele Russo, presidente di Amnesty International Italia, ricordandoci la necessità dell’introduzione dei codici alfanumerici sulle divise e i caschi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico.
Ma l’importanza di questa settimana di eventi è racchiusa in una semplice immagine:
Mercoledì 21 luglio, esattamente 20 anni dopo i tremendi crimini perpetrati da esponenti delle forze dell’ordine nella scuola Diaz, ci siamo ritrovati di fronte a quella stessa scuola per accompagnare con testimonianze e riflessioni le vittime di quegli abusi, che hanno avuto la possibilità di rivedere gli stessi luoghi sotto una luce nuova.
Non troveremo mai una compensazione sufficiente per chi ha subito violenze feroci e ingiustificate per mano di chi doveva servire lo Stato, ma è stato significativo rivendicare la nostra sete di giustizia e cantare insieme la Canzone del maggio.
Immagine di copertina:
Presidio in via Cesare Battisti – “La Diaz accoglie le vittime”. Foto di Eugenia R.
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