Fare l’archeologo è un mestiere che quasi tutti abbiamo sognato di fare quando eravamo ragazzini; un po’ come quando si immaginava di diventare astronauta. Però soltanto una parte di quelli che avevano pensato di intraprendere tale professione è riuscita ad esserlo attraverso anni di studio, lavoro e molti sacrifici. Archeologia
Ma cosa significa essere o fare l’archeologo ed è diverso da altri mestieri di ambito umanistico come lo Storico dell’Arte, lo Storico, il Filosofo, l’Antropologo, ecc.?
Sicuramente questi mestieri hanno molti punti in comune tra cui anche il dover accettare occupazioni diverse dall’idea originaria che ognuno aveva all’inizio del percorso di studi. Molti laureati in archeologia infatti diventano poi insegnanti o operatori museali, mestieri comunque avvincenti e gratificanti.
Nella pratica i fattori che distinguono il mestiere dell’archeologo sono essenzialmente due.
Il primo tra questi è la ricerca sul campo. L’archeologo non rimane sempre chiuso in laboratorio o nelle stanze universitarie o negli archivi; questa figura di ricercatore si reca sul territorio, lo studia e lo passa a setaccio per trovare le evidenze che le fonti scritte citano e così contribuire alle ricerche che altri umanisti sviluppano.
L’altra caratteristica importante riguarda l’oggetto delle ricerche archeologiche. Infatti questi studiosi non si fermano di fronte all’opera d’arte eccezionale ma dedicano anche un’attenzione particolare agli oggetti comuni e di uso quotidiano, definiti anche “cultura materiale”, e il modo con cui nel passato venivano utilizzati e il valore intrinseco che così assumevano.
Dopo le premesse riportate sopra, si giunge alla domanda: “come si svolge la ricerca archeologica e in generale questo mestiere?”
Per rispondere a questa domanda bisogna prima di tutto cancellare dalla propria mente l’idea che un archeologo sia una specie di avventuriero ottocentesco con il casco coloniale, le basette e gli occhiali da naso o pince-nez che si reca in paesi esotici per recuperare il tesoro di qualche civiltà sconosciuta oppure che lo si identifichi con i canoni cinematografici creati dai film di Spielberg o altri registi.
Gli archeologi possono vivere delle piccole avventure durante gli scavi ma non vanno mai all’avventura e se si recano all’estero ci vanno per progetti di cooperazione con gli atenei, i centri di ricerca e i governi dei paesi ospitanti.
La ricerca archeologica è articolata in tre fasi:
- La consultazione di pubblicazioni precedenti, di reperti rinvenuti in campagne di scavo già effettuate nel medesimo luogo e di qualsiasi altra documentazione inerente alla zona in cui verrà effettuata la campagna di scavo;
- Lo scavo vero e proprio cioè il mettere in luce resti antichi, mappare, dare una prima catalogazione e redigere un resoconto delle attività giorno per giorno;
- La messa in sicurezza delle strutture rinvenute, il portare in un luogo adatto i reperti, il riordinare i dati e la documentazione di scavo.
Anche se lo scavo risulta soltanto un terzo del lavoro complessivo dell’archeologo rimane senza alcun dubbio la parte più interessante.
Per far comprendere a grandi linee cosa succede durante le operazioni di scavo archeologico, come i ricercatori lavorano e come ci si comporta su uno scavo descriverò un ipotetico scavo prendendo spunto da quelli avvenuti a Genova e in Italia e da mie esperienze.
Ci sono tanti tipi di scavo, da quello urbano come quello in Piazza Caricamento a Genova a quelli in area Archeologica come a Pompei fino a quelli sul territorio.
Far partire una campagna di scavo non è affatto un’operazione semplice poiché c’è bisogno di ottenere concessioni e permessi dall’ente pubblico competente ovvero la Soprintendenza.
Quest’Ente deve valutare chi sia a effettuare la richiesta o per quali finalità debba essere pubblicato un bando e verso quali soggetti rivolgersi. E’ evidente che un privato cittadino, privo delle necessarie competenze, non possa improvvisarsi archeologo. Per cui più frequentemente saranno le società di scavo oppure gli istituti di ricerca ad essere poi destinatari dell’incarico.
Ne sono un esempio l’Istituto di Storia della Cultura Materiale ISCUM che ha sede a Genova e l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, IISL, che ha sede a Bordighera, vicino al Museo-Biblioteca Clarence Bicknell, con i quali ho avuto piccole collaborazioni negli anni scorsi.
Prima di riportare alla luce ciò che è sepolto sotto terra bisogna conoscere la zona e avere un’idea su cosa possa esserci sotto i nostri piedi e per questo si procede con le operazioni “pre scavo”.
Tali operazioni servono ad acquisire la maggior parte delle informazioni sull’area indagata, utilizzando le fonti documentarie negli archivi o le pubblicazioni trattanti possibili scavi avvenuti precedentemente nella zona interessata, oppure procedendo con ricognizioni sul campo a volte con l’ausilio di procedure geofisiche come l’elettromagnetismo.
Dopo aver inquadrato nel miglior modo possibile cosa e dove cercare, si parte con lo scavo vero e proprio.
All’inizio gli archeologi procedono utilizzando dei comuni attrezzi da muratore come pala, piccone e carriola, rimuovendo gli strati più superficiali e suddividendone ognuno in unità stratigrafica, abbreviata in US, da riportare sulle schede tecniche e sul “diario di scavo” una sorta di diario di bordo. La terra viene subito passata a setaccio per verificare che al suo interno non ci siano reperti.
Il suddividere e schedare ogni strato, dai livelli più in superficie a quelli archeologici, è un procedimento noioso ma estremamente utile perché non solo può essere un aiuto per comprendere cosa sia successo dopo l’abbandono del sito ma anche per facilitare la continuazione delle ricerche nel caso di successive campagne di scavo.
Ad esempio quando io e i miei compagni di corso abbiamo partecipato alle campagne di scavo a Pieve di Zignago con l’ISCUM e a Ventimiglia con l’IISL eravamo di fronte ad aree archeologiche già soggette a ricerca negli anni precedenti e consultare la sequenza stratigrafica riportata nelle relative pubblicazioni ha permesso di velocizzare le procedure di indagine.
Quando si è arrivati agli strati più antichi si lasciano gli attrezzi da muratore e la forza bruta per passare alla trowel (una cazzuola idonea all’uso), alla scopetta e alla paletta divenendo più lenti nel procedere ma più precisi e attenti nell’agire.
Inoltre si passa dalla postura eretta a quella accovacciata per avere una migliore visione dello strato e pulirlo bene quando bisognerà fotografarlo; questa posizione risulta essere molto faticosa in quanto i muscoli delle gambe rimangono in tensione per parecchio tempo.
Gli strati di interesse archeologico prima che vengano rimossi e gli edifici antichi messi in luce devono essere documentati su particolari fogli compilativi, le schede US, mappati e fotografati.
Per mappare un’area scavata solitamente si ricorre alla triangolazione e alla palina con il puntatore laser, nei casi in cui il budget lo permetta si ricorre alla stazione totale, uno strumento topografico che permette di avere una mappatura precisa.
Le fotografie sono una parte divertente del lavoro perché c’è bisogno che il cantiere sia completamente vuoto e con la luce giusta; sembra di diventare fotografi professionisti dedicando particolare attenzione alla luce, alla prospettiva e alla nitidezza. Ogni tanto accade che durante le operazioni di fotografia ci si debba ingegnare per scattare quella giusta da inserire nella pubblicazione.
Ad esempio sullo scavo a Monte Zignago ci siamo dovuti tutti disporre come una barriera difensiva su un calcio di punizione per avere una luce uniforme, oppure a Ventimiglia quando sono dovuto salire su una scala a tre metri di altezza per riuscire a prendere tutta l’area di scavo, facendo i debiti scongiuri poiché ero vicino al bordo del cantiere e temevo di cadere.
Ovviamente non successe nulla ma dentro di me temevo di finire cadendo dentro uno dei sarcofagi presenti lì sotto.
Infine si arriva all’ultima parte dello scavo ovvero riordinare la documentazione scritta durante la campagna e fare un primo esame dei reperti con una prima pulitura. Questa parte è molto interessante perché si possono guardare con maggiore attenzione i reperti che un archeologo ha trovato quasi come se fossero un bene proprio. La maggior parte dei reperti rinvenuti sono ceramici, in pietra e ossa di animali o umane.
Mi è capitato nello scavo di Zignago di rinvenire una gran numero di reperti osteologici, le ossa, appartenenti ad animali macellati o a selvaggina mentre nello scavo a Ventimiglia ho avuto l’emozione di assistere all’apertura di un sarcofago in marmo e di dover rimuovere alcune parti dello scheletro di un individuo vissuto più di millecinquecento anni fa.
Nei medesimi scavi ho anche ritrovato alcuni oggetti in metallo, principalmente chiodi; non sono infatti rari i rinvenimenti metallici ma riguardano soltanto gli oggetti comuni e solo in rari casi si ritrovano oggetti preziosi o monete ben conservate.
Ad esempio la notizia di un tesoretto di monete come quello rinvenuto a Como è un caso estremamente raro. I resti organici ovvero le parti molli dei corpi, il legno e i tessuti si deteriorano inevitabilmente a meno che non si trovino in condizioni climatiche in cui possa avvenire una mummificazione com’è successo a Ötzi, la Mummia del Similuan, che ora deve essere conservata in un ambiente a clima controllato.
Tutti i reperti verranno successivamente messi in depositi adatti alla loro conservazione e le aree indagate vengono messe in sicurezza con possibilità di essere in seguito musealizzate e aperte al pubblico.
A conclusione posso affermare con certezza che essere su uno scavo archeologico o essere un archeologo è un lavoro come una qualsiasi altra delle professioni in ambito umanistico ma sebbene non si vada mai all’avventura come il celeberrimo Professor Henry Walton “Indiana” Jones Junior si possono vivere piccole ma significative emozioni in maniera del tutto inaspettata.
Articolo di:
Federico Balzano
Immagine di copertina:
Ventimiglia Femore. Foto di Federico Balzano
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