Violenza sulle donne

Sensibilizzazione glamour? No, grazie

Ritratti di donne sfigurate, sfilata e dj set sono elementi accostabili quando il fine è sensibilizzare alla lotta contro la violenza sulle donne?
12 Marzo 2021
6 min
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Violenza sulle donne
Framley Parsonage – Was it not a Lie?, 1860. John Everett Millais (d.1896) and Dalziel Brothers. Foto di Birmingham Museums Trust

Mi sono chiesta a lungo se fosse giusto scrivere questo articolo. Quando si tratta un tema delicato come la violenza sulle donne dovrebbero esserci solo apporti costruttivi e mai passabili di fraintendimenti. Mi sono risposta che quando qualcuno decide di affidare i suoi pensieri e le sue opinioni alla parola scritta deve essere in grado di modellare le frasi rendendole univoche, in breve: bisogna sapersi spiegare.

Quando ho saputo che a Genova si sarebbe tenuta una mostra fotografica per sensibilizzare lɜ cittadinɜ alla tematica della violenza sulle donne non ho potuto fare a meno di informarmi per partecipare.

Solitamente cerco di evitare le inaugurazioni delle mostre: non amo i lunghi discorsi retorici del rappresentante delle istituzioni di turno, non apprezzo il vociare di un pubblico che si presenta alla ricerca di un evento mondano, detesto la calca di persone da aggirare per visionare le opere e il rumore intorno che mi impedisce di riflettere con tranquillità.

Quando una mostra è temporanea e si svolge unicamente in un week-end si palesa il conflitto con il proprio calendario di impegni personali, pertanto era l’inaugurazione l’unico momento per visitare “Il rumore del silenzio – Arte e fotografia, una battaglia di civiltà contro la violenza sulle donne”, la mostra fotografica promossa da Wall of Dolls, in collaborazione con l’Ordine degli Infermieri di Genova e l’Associazione Gaia.

L’esposizione si prefiggeva di contribuire alla sensibilizzazione sul tema attraverso le fotografie di sedici tra professionistɜ e appassionatɜ, scatti che sarebbero stati messi in vendita per una raccolta fondi col fine di aiutare le donne vittime di violenza. Questa piaga durante il lockdown ha imprigionato le donne tra le mura domestiche, impossibilitando le vittime a fuggire o denunciare, pertanto il tema risulta ancor più toccante nella sua drammaticità.

La prima riflessione che si è palesata nella mia testa è nata ancor prima di parteciparvi e riguarda il dove e quando

Organizzare un’esposizione durante un fine settimana estivo, in città, comporta automaticamente una diminuzione dell’ipotetica affluenza, ma le norme sul distanziamento sono chiare, quindi l’argomento passa in secondo piano.

Ciò che mi ha fatto riflettere è un pensiero preciso: dove si trova la maggior parte delle donne abusate durante il week end? Sono a casa, con i loro mariti violenti. Fatico a immaginare che una donna vittima di violenza domestica riesca a lasciare il marito a casa per recarsi a una mostra come questa; è evidente che questa scelta espositiva metta in difficoltà questo tipo di platea, e allora sensibilizzare chi?

Scalinata Borghese, sede della mostra, sorge (per chi non lo sapesse) a due passi dalla sede del mercato rionale più apprezzato dalle donne genovesi. Il mercato di Piazza Palermo è il punto di ritrovo di moltissime Signore e Signorine due volte a settimana. Se la mostra fosse stata prolungata durante una manciata di giorni feriali sarebbe cambiato qualcosa?

Ovviamente non si può sapere, ma mi stuzzica pensare che nel mucchio di donne al mercato, complici ipotetici poster o volantini, qualcuna si sarebbe recata a Scalinata Borghese e avrebbe visto con i suoi occhi alcune fotografie che testimoniano le estreme conseguenze della violenza, magari questo avrebbe acceso un campanello d’allarme, magari qualcuna avrebbe pensato a quell’amica che tutte le settimane ha dei lividi che vengono giustificati dall’aver inciampato o dall’aver preso in pieno lo spigolo del mobile mentre cucinava distratta, o magari no.

Violenza sulle donne
Ritratto di Renata Busettini esposto a Scalinata Borghese. Foto di Valentina C.

Con tutti questi dubbi in spalla mi sono recata all’inaugurazione e la scena che mi si è presentata davanti mi ha lasciata interdetta

Prima di vedere, ho sentito. La musica da dj set avvolgeva i gradini della scalinata, quel genere di musica che ci trapana le orecchie quando accompagniamo le nostre sorelline in quelle grandi catene di abbigliamento per teenager. Il rumore del silenzio, parafrasando il titolo della mostra, spesso indica indifferenza, ma in questo caso sarebbe stata una colonna sonora che, a mio avviso, avrebbe espresso maggiore rispetto e delicatezza.

Mi sono guardata intorno, un po’ spaesata, e ho immediatamente cercato un appiglio visivo per trovare le fotografie esposte. Le stampe erano appese alle inferriate delle porte d’ingresso del locale, sicuro rimando alla gabbia domestica, peccato che tra i cancelli che ospitavano le foto c’erano i tavolini dellɜ avventorɜ che sorseggiavano drink colorati.

Cerco di essere più precisa possibile: immaginate che due cancelli con le fotografie appese siano uno di fronte all’altro, alla distanza di circa 3 metri e che al centro sia disposto un tavolo con lɜ clienti del locale: va da sé che risulta piuttosto fastidioso avere a 20 centimetri di distanza un via vai di persone mentre si gusta un aperitivo, motivo per cui erano davvero pochi lɜ spettatorɜ che si avvicinavano.

Altre fotografie erano appese in corrispondenza di entrate e uscite, punti che sicuramente non invogliano ad una paziente fruizione perché, banalmente, ci si trovava in mezzo ai piedi.

Vorrei aver avuto un’occasione migliore per parlare degli scatti, alcuni veramente delicati e puntuali, caratterizzati da un’eccellente composizione formale e cromatica; immagini che realmente sensibilizzano e toccano nel profondo, a volte complici le condizioni delle donne ritratte con le loro cicatrici e i volti sfigurati.

Mentre osservavo questi piccoli quadri simbolici ho avuto modo di intravedere la preparazione del seguito della serata: una serie di bellissime ragazze, tra cui una Miss Reginetta d’Italia, stavano amabilmente chiacchierando aspettando la sfilata total white in cui avrebbero sfilato sui gradini di Scalinata Borghese, esattamente di fronte alla sconvolgente foto di Renata Busettini, il ritratto di una donna con il collo coperto da cicatrici da ustione.

È stato il quel preciso istante che ho deciso di andarmene, non ho aspettato il proseguire della serata

Mi reputo una persona sensibile, con una soglia di sopportazione piuttosto bassa e l’idea di vedere bellissime giovani donne sfilare dando le spalle alla foto di una donna sfigurata mi provocava un profondo senso di disagio. 

Nei giorni a seguire ho riflettuto molto e nemmeno la più profonda delle spiegazioni mi permetteva di digerire l’idea di una scena simile.

Un ossimoro voluto per riflettere su quanto siano belle le donne quando non subiscono violenza? Una sfilata che simboleggiava la leggerezza che dovrebbero avere le ragazze, libere e senza abusi? La volontà di mostrare una donna bambola, si, ma quando lo decide lei?

Quando si vuole organizzare una raccolta fondi “vale tutto”, vale il venerdì sera, il locale glamour, la sfilata, il dj set, in parole semplici: tutto ciò che può attirare un target preciso con la possibilità di contribuire significativamente in termini economici alla causa.

Quando però su un evento simile si pianta la bandierina della “mostra per sensibilizzare” allora le regole del gioco, a mio avviso, sono altre. La natura stessa di un’esposizione è mettere al centro le opere, il contorno è vincolato dalle famose “scelte curatoriali”, l’insieme di decisioni soggettive che dovrebbero esaltare l’opera esposta.

L’ultima domanda che mi sono posta è stata: perché questo insieme mi ha disturbato così tanto?

So che il femminismo può lottare, sconvolgendo lə spettatorə nella sua eccezione più edificante, grazie alle opere d’arte, alle fotografie, alle installazioni. Quando sono tornata a casa non ho provato questo, mi sono sentita rappresentata, come donna, in un modo viziato; ho pensato, da amante dell’arte, che sarebbero bastate le fotografie a parlare per tutte quelle donne che non possono farlo e che se le donne delle foto avessero tentato di comunicarmi qualcosa non le avrei sentite, il loro messaggio sarebbe stato soffocato dalla musica e dalle risate. 

L’arte che colpisce come un pugno nello stomaco è una delle cose più preziose che abbiamo. Sensibilizzare attraverso l’arte è possibile, anche usando il suono e l’ambiente, come dimostra un’opera d’arte contro la violenza sulle donne a cui sono particolarmente affezionata: Búsqueda di Teresa Margolles (qui il link al video dell’opera).

Violenza sulle donne
Búsqueda di Teresa Margolles esposta alla Biennale di Venezia 2019. Foto di Valentina C.

L’artista in una stanza buia espone le pareti di vetro delle stazioni ferroviarie di Ciudad Juarez, la sua città natale che vanta un tasso di criminalità oscenamente alto. Sui vetri logori prelevati in loco sono appesi i volantini che vengono affissi per cercare le donne scomparse. Sono richieste di aiuto reali, con foto di donne realmente scomparse, probabilmente violentate e uccise. I volantini hanno diversi gradi di usura, rovinati dal sole e dalla pioggia, e recitano più o meno le stesse frasi provenienti da familiari ormai rassegnatɜ al fatto che non rivedranno più le loro figlie, mogli e sorelle in un paese in cui la polizia ha troppi casi e pochi uomini divisi tra faide, spaccio, omicidi e narcos. In sottofondo il rumore di un treno che passa e, ad ogni transito, i vetri vibrano.

Un’opera come questa non solo sensibilizza, ma sconvolge, chiude lo stomaco, a volte fa piangere e lascia qualcosa dentro di immutabile. Il magico potere dell’arte della denuncia è proprio questo, disturbarti, farti provare una catarsi profonda che il giorno dopo ti farà capire che quando si chiude la gola si palesa una certezza meravigliosa: siamo ancora sensibili, siamo ancora umani.

Immagine di copertina:
wall:in media agency su opera di John Everett Millais and Dalziel Brothers
, Framley Parsonage – Was it not a Lie?


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