Ulivo

LABIBA | Cap. 4.2. Ulivo simbolo di pace e mossa politica

Simbolo di pace e resistenza, l’ulivo è un albero benedetto che affonda le sue radici nella cultura più antica. Tuttavia, è bene sottolineare che quando si parla di ulivi si parla anche, e soprattutto, di strategia politica ed economica.
7 Maggio 2021
di
4 min
2K views
Premessa: Labiba prima di essere un progetto è una storia, lunga e centenaria come la storia della Palestina. Per questo troverete sempre i nostri articoli divisi per capitoli come fosse un grande libro. L’ulivo come mossa politica è il cap. 4.2 e fa parte della sezione dedicata alle risorse della terra palestinese.

Simbolo di pace, rigenerazione e resistenza, l’ulivo è un albero benedetto che affonda le sue radici nella cultura più antica. Se da un lato il primo addomesticamento risale agli agricoltori siriani, dall’altro le sue origini sono ancora più antiche e leggendarie. L’ulivo sarebbe infatti un regalo di Atena, che offrì un simbolo legato al nutrimento, alla terra, alla vita, alla pace. Un regalo che venne preferito a quello offerto da Poseidone, il dio del mare, il quale donava una fonte di acqua salata e un cavallo da battaglia, quindi un simbolo di guerra. 

Ulivo
Foto di David Boca

Ma se l’ulivo è da sempre simbolo di nutrimento e di pace, che ruolo ha nel conflitto Israelo-palestinese?

Come abbiamo già visto nell’articolo su Fernweh – L’ulivo come risorsa e alimento, gli ulivi sono uno dei principali strumenti di sostentamento per il popolo palestinese.

Dal 1967 coloni e autorità israeliane hanno distrutto, bruciato o sradicato un milione e duecentomila alberi di ulivo. Quasi 550mila quelli perduti per la costruzione del Muro di Separazione e la conseguente annessione del 18% della Cisgiordania allo Stato di Israele. Fin dal 1974 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il leader politico palestinese Yasser Arafat dichiarò che tutto l’odio israeliano si manifestava anche nella volontà di boicottare l’economia palestinese partendo dalla depauperazione degli ulivi:

simbolo orgoglioso e che ha ricordato loro (Israele) gli abitanti indigeni della terra, un ricordo vivente che la terra è palestinese. Così hanno cercato di distruggerlo.

Da allora si stima che i coloni israeliani, nel tentativo di sviluppare insediamenti, costruire strade e nuove infrastrutture, abbiano sradicato o bruciato più di un milione di ulivi. Le autorità israeliane, inoltre, adottano diverse strategie per giustificare tali mosse di accanimento nelle terre palestinesi: il colonnello Eitan Abrahams, per esempio, ha affermato che gli ulivi vengono rimossi per la sicurezza dei coloni, sostenendo che gli alberi proteggono uomini armati palestinesi.

Ulivo
Foto di John Cameron

Tuttavia, è bene sottolineare che quando si parla di ulivi si parla anche, e soprattutto, di strategia politica ed economica.

Dal 17 agosto 2015, infatti, dopo una battaglia legale durata nove lunghi anni, la Corte Suprema israeliana – ribaltando una sua precedente decisione – ha dato il via libera al ministero della Difesa per la costruzione del muro di separazione. Conseguenza di tale decisione, fu lo sradicamento da parte dell’esercito israeliano di ulivi secolari di proprietà delle famiglie palestinesi di Beit Jala, villaggio a ovest di Betlemme, in Cisgiordania. 

Tale decisione politica fu deleteria per l’economia palestinese: il calo della produzione dovuta alle confische delle autorità israeliane per la costruzione delle colonie e gli alti costi, hanno provocato negli anni un aumento insostenibile per la popolazione dell’olio di oliva palestinese, che ha perso così competitività all’interno del mondo arabo. Tali conseguenze hanno avuto ripercussioni nell’intero settore agricolo, che fino a qualche decennio fa era il più forte all’interno dell’economia palestinese.

Oggi purtroppo la produzione agricola rappresenta meno dell’8% del PIL: il mancato controllo della terra – basti pensare che per la costruzione della bypass road 375 (strada riservata ai coloni israeliani) che collega Gerusalemme a Beitar Illit, il governo israeliano ha confiscato 100 dunam (un dunam è pari a mille metri quadrati) di terre di proprietà palestinesi – della perdita di competitività e quindi di ricavi, hanno spinto molte famiglie palestinesi a lasciare le terre e a cercare lavoro o nel settore pubblico palestinese o in Israele e nelle colonie israeliane.

La stagione del raccolto

Se la stagione della raccolta è da sempre motivo di feste per le famiglie palestinesi, oggi proprio durante questo periodo, le politiche di occupazione vanno a ledere le terre agricole, in particolare quelle al confine. Secondo alcuni dati dell’Oxfam, sono quasi 10 milioni gli ulivi in Cisgiordania. Dato molto importante, in quanto, se si pensa in termini di profitto, una buona annata può portare ad un guadagno totale di oltre cento milioni di dollari.

La comunità locale e internazionale non ha esitato a schierarsi dalla parte della terra: un esempio è l’associazione locale JAI-YMCA, che pianta alberi di ulivo nelle terre più a rischio e poi sostiene i contadini nella raccolta. I soldati e i coloni israeliani tendono a non aggredire le famiglie palestinesi durante il raccolto, specialmente se sul posto sono presenti gruppi di persone internazionali. In genere si opera nei terreni minacciati di confisca o in quelli al di là del Muro.

Israele applica nei Territori Occupati un’antica legge ottomana: se non si utilizza la propria terra per un periodo di 3-5 anni, questa può essere confiscata.

Ai contadini è spesso impedito l’accesso ai propri appezzamenti da barriere, dai checkpoint e dal Muro. Così, non potendo raggiungere le proprie terre, rischiano la confisca. Ma oltre il danno anche la beffa poiché Israele rilascia permessi di ingresso nelle terre al di là del Muro ai palestinesi proprietari. Tuttavia, essendo permessi individuali, l’accesso alle terre è permesso ad un solo membro della famiglia. Non è difficile immaginare l’insuccesso del raccolto quando un solo contadino ha la possibilità di raccogliere il ricavato prima che questo marcisca. 

Purtroppo, se da un lato l’aiuto dei gruppi internazionali che hanno accesso libero ai campi è un atto concreto, dell’altro risulta sicuramente insufficiente per coprire l’intero territorio e, di conseguenza, la confisca di interi appezzamenti di terre in Area C, nonché il 60% della Cisgiordania. Doveroso quindi fare due calcoli e comprendere le conseguenze devastanti della politica israeliana sulla confisca delle terre palestinesi: senza la possibilità di utilizzare il potenziale economico dell’Area C, il PIL dell’Autorità Palestinese diminuisce del 35%, ossia di 3,4 miliardi di dollari l’anno. 

L’ulivo in Palestina è il simbolo della terra e delle radici. Continuare a coltivare la terra e a produrre olio è, senza alcun dubbio, per il popolo palestinese, un mezzo per resistere all’occupazione.

L’obiettivo è, ok, hai distrutto 100 alberi, ne pianteremo altri 100. È solo che non lasceremo andare. È una forma di resistenza.

Burhan Ghanayem, co-president, Voices for Justice in Palestine

Articolo di
Giulia Marchiò

Immagine di copertina:
Foto di Labiba Network


Scrivi all’Autorə

Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.


Waterfront di Levante
Articolo Precedente

Waterfront di Levante: sara’ bellissimo, ma non un arricchimento per i genovesi

Razzismo
Prossimo Articolo

Dentro al razzismo

Ultimi Articoli in Large

TornaSu

Don't Miss