C’è un film che annulla la convenzionale divisione tra la storia narrata e il documentario sociale, anzi ‘verista’ nella più classica tradizione verghiana. C’è un film documentario che con la sua poesia riassume tutta la storia novecentesca, burrascosa, romantica e tragica del porto di Genova.
La storia del capoluogo ligure stesso e delle sue genti, che da quel porto fuggivano verso altri continenti e che in quel porto arrivavano, anche in tempi recenti, in cerca dell’illusione di una vita migliore. Quel luogo invece si rivelava essere “La bocca del lupo”, ma spesso quelle stesse fauci erano chiamate per sempre e semplicemente ‘casa’.
Questa è la storia di Enzo e Mary e di un amore coronato dopo decenni di privazioni e di vite difficili, senza idealismi da film romantico, senza patetiche morali, perché questa è la vita vera e il lieto fine è solo una patina.
Docufilm: La bocca del lupo
Il titolo di questo docufilm, girato nel 2009 e distribuito l’anno successivo, è preso in prestito dal suo regista, Pietro Marcello, dall’omonima opera letteraria, “La bocca del lupo” appunto, scritta da Remigio Zena, pseudonimo di Gaspare Invrea, che nell’Ottocento seppe raccontare Genova in forma verista e del tutto settentrionale e, in particolar modo, la vita quotidiana nella zona di Prè.
Una profonda voce narrante pronuncia qualche verso, scivolando tra gli scogli di Quarto dei Mille.
L’audio e le riprese sono sporchi, segno di una scarsità di mezzi che rende, se possibile, ancora più ricche le vicende raccontate: Vincenzo Motta è un uomo originario di Catania che vive fin da bambino a Genova, dove era giunto col padre che era un contrabbandiere di sigarette e accendini. Ha passato quasi trent’anni della sua vita in carcere, ma della sua esistenza nel dettaglio si sa sempre poco, sepolto dalla miseria umana che ha incontrato, c’è chi lo ricorda a vendere angurie vicino a via del Campo.
Enzo si lamenta con chi lo conosce di essere troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per lavorare. Una delle sue ultime pene detentive è durata dal 1986 al 2000.
Nella piccola dimora nel ghetto della città vecchia, al porto, lo ha aspettato per anni una cena fredda e la compagna di una vita: Mary Monaco, prostituta dei caruggi, originaria di Roma, transessuale, in passato eroinomane.
Lei ed Enzo in carcere si sono aspettati per dieci anni e si erano desiderati sin dal tempo del loro primo incontro dietro le sbarre, quando ancora si mandavano messaggi muti, registrati su cassette nascoste.
Mary, scontata la sua pena, ha rinunciato alla droga, forse grazie al sentimento per Enzo, un omone “con la dolcezza di un bambino in un corpo da gigante”.
Genova, coi suoi vicoli angusti, sudici, notturni e accoglienti è stata prima la loro cella e poi il loro nido d’amore, la casa che hanno dovuto scegliere, quasi con discrezione, al posto della casa in campagna, che avevano solo potuto sognare.
Delicatezza e rispetto
Delicatezza e rispetto vennero conservati nel corso degli incontri e delle interviste tenuti al Festival di Torino 2009, da cui con non poca sorpresa e felicità il film uscì vincitore, così come venne premiato ai David di Donatello.
Pochi mesi dopo la distribuzione, nell’estate 2010 Mary morì di malattia, lasciando un vuoto incolmabile nel suo amato Enzo, che perse l’alloggio dove vivevano e finì di nuovo in strada, a mendicare, aiutato da cittadini, amici e da associazioni di volontariato, fino a quando scomparve anche lui nell’inverno 2016:
“Ciao amore ti sono mancato? Un bacio, ancora uno! Ti voglio bene, ti amo bbastarda!”
Immagine di copertina:
Genova Prè. Foto di Andrea Albini, fonte Wikicommons
Scrivi all’Autorə
Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.