La bocca, il naso e il mento del David di Michelangelo sono imprigionati da una mascherina-cancello: un lucchetto dietro, a chiuderla, una chiave appoggiata accanto, sul ripiano, per aprirla. In realtà la soluzione non sarebbe in grado di proteggerlo dal coronavirus, ma si tratta di una metafora; l’eroe biblico, sguardo fiero, aggrottato, concentrato, si appresta a combattere un nemico apparentemente imbattibile, il gigante Golia. La smorfia della bocca che sappiamo sarà vincente, tradisce un certo disprezzo. Il Respiro dell’ Arte
Siamo noi, abitanti spaesati dell’anno 2020, in lotta con la pandemia e la sua scia di conseguenze sociali, economiche, psicologiche, sanitarie. E d’altronde per i fiorentini il lavoro di Michelangelo ha rappresentato fin dagli albori un potente simbolo.
La statua del grande artista toscano venne infatti celebrata come massima espressione del Rinascimento, emblema dei valori filosofici ed estetici di un’epoca, perfetta rappresentazione dello splendore e della potenza della Firenze democratica liberata dalla tirannide.
Ecco insomma il riferimento alla Libertà minacciata tanto evocata nei mesi della quarantena; perché indossare la mascherina, per alcuni e alcune, ha significato -e significa tutt’ora- prigionia. E non è scontato ribadire oggi che la Libertà non andrebbe intesa come fatto personale bensì come un bene comune da tutelare in nome di una civile convivenza tra pari…Argomento caldissimo ancora in questa fase, con gli obblighi che si assottigliano e la rivendicazione, nelle piazze, di una battaglia serrata contro l’oggetto capace di dividere in modo netto complottisti e catastrofisti, negazionisti e apocalittici, persone di buon senso e paranoici. Il David che è anche la Libertà dell’Arte tutta, vittima evidentemente privilegiata di questo periodo buio
A realizzare l’opera, grazie alla tecnica della stampa 3D che certo Michelangelo non ha potuto conoscere, l’artista Anne-Claire Van Den Elshout, olandese di origine ma da anni adottata da Capezzano Monte, frazione di Pietrasanta.
La mostra in cui si poteva vedere l’opera s’intitolava Il Respiro dell’Arte e si è chiusa il 13 settembre scorso
Ideata dalla curatrice Virginia Monteverde in pieno lockdown, fa parte di un progetto più ampio che ha visto a Genova la sua prima tappa e approderà nei prossimi mesi in Germania, Paesi Bassi e Svizzera.
Curiosa testimonianza artistica di questi tempi difficili segnati dal COVID-19 e dalle misure anti-contagio, l’esposizione genovese è stata promossa da Art Commission con la collaborazione di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e il sostegno del Goethe Institut Genua, della Fondazione Kosmos-Kultur-Stiftung di Zug (Svizzera) e del Festival Internazionale di Poesia di Genova.
Coinvolti/e trentanove partecipanti dai paesi più vari; non solo Italia ma anche Danimarca, Grecia, Giappone, Spagna, Svezia, Argentina. La mostra è stata arricchita anche di due sezioni altrettanto interessanti: quella di danza, Every Breath I Take I’m Still Dancing, con la performance di 19 danzatori e danzatrici internazionali e curata da Davide Francesca e Francesca Pedullà e La Voce dei Poeti, sezione di Poesia a cura di Claudio Pozzani, direttore del Festival Internazionale di Poesia di Genova.
Entrambe possono essere apprezzate visitando la pagina YouTube del progetto, ove per altro sono stati caricati video di approfondimento e di work in progress e una serie di interviste a lavoratori e lavoratrici del settore.
L’idea della mostra è nata quando la mascherina non era ancora obbligatoria ovunque ed anzi le restrizioni erano diverse nei vari paesi di provenienza degli artisti (in alcuni di essi non ve ne sarebbero state per ancora qualche mese). Eppure, a tutti loro è stato chiesto di partire dallo stesso oggetto, dal discusso emblema del tempo pandemico, rivisitandolo per mezzo dei pochi materiali a disposizione o dei soli reperibili nelle case entro cui siamo stati confinati e confinate per giorni.
In generale, durante la visita, la mascherina veniva percepita come oggetto del limite, della censura, della chiusura, perfino dell’oppressione; impedisce il respiro dell’umanità, così come, più in generale, il COVID-19 ha impedito il respiro dell’Arte. La stessa mascherina, però, è stata ed è tutt’ora anche la sola possibilità che abbiamo (movimenti negazionisti a parte) di continuare a respirare e per questa ragione la si indossa, aderendo alle regole imposte.
Aggirarsi tra le opere in esposizione, raccolte nell’unica Sala Liguria di Palazzo Ducale, è stata un’esperienza vagamente surreale
A metà tra la passeggiata lungo le vie di negozi di moda che ostentano le ultime tendenze in fatto di estetica e design, la ricerca di bizzarrie e curiosità in una moderna Wunderkammer e un giro dietro le quinte di un grottesco spettacolo teatrale. Ma anche, a tratti, un viaggio nella storia, tra grandi guerre, antiche tradizioni e mitiche epidemie del passato.
Mascherine come cimeli preziosi da collezione, improvvisate (Silvano Repetto, in assenza di altro, si protegge con Effetti collaterali di Woody Allen), riletture originali, schiette provocazioni, denunce, ironia (Fred Rosentock realizza un assurdo modellino dotato di piccolo ventilatore annesso che avrebbe l’improbabile funzione di disperdere il virus nell’aria prima che colpisca la mascherina e la persona).
Mascherine come indumenti, ma anche evidenza di un’azione precisa, quella di proteggere e proteggersi, quella di alzare un confine tra noi e ciò che ci circonda, di tenerci e tenere a distanza di sicurezza
A questo proposito mi ha colpita anche l’installazione Periferias di Nano Valdes.
L’opera sembra mettere in luce la comune difficoltà, in quanto esseri relazionali, a mantenere il famoso distanziamento sociale che in tempo di pandemia ci ha tutelati/e, specie nei confronti degli sconosciuti. Due i metri imposti dall’emergenza e altrettanti quelli che in questo caso separano i nasi di due volti-maschere a metà, sospesi nel vuoto e collegati da una barra, sorta di dondolo a bilico.
Equilibrio precario, come fosse un gioco. Divertente? Più triste. Una tragicommedia, forse, il tentativo di danzare nello spazio misurato per conservare quella lontananza necessaria, ognuno con la propria periferia. Le ansie, sì, ma anche il ruolo da interpretare in quel grande teatro che è la società. Per Valdes lo spazio vuoto generato dalla paura e della sicurezza ci allontana dal prossimo ma, in fondo in fondo, anche dall’essere noi stessi.
Come fosse un raro reperto naturale, delicatissima e dal sapore preziosamente antico è la raffinata opera di Maria Rebecca Ballestra, artista che ho avuto la fortuna di conoscere ai tempi dei miei primi approcci concreti all’arte contemporanea e che purtroppo ci ha lasciati di recente.
Da sempre attenta alla Terra e sensibile ai temi ambientalisti, il suo Respiro è un paziente lavoro di cucitura sulla più banale delle mascherine in commercio, quella monouso che troppo spesso viene poi gettata al suolo o in mare a scapito della salute del pianeta. Su una di queste, una qualunque, ecco foglie di ligustro e di incenso, attaccate con fare lento e cauto: una pratica che si oppone consapevolmente alla velocità imperante e ai ritmi concitati di questa società.
La scelta delle foglie non è casuale: l’incenso, con il suo penetrante profumo, è usato fin dall’antichità a scopi medici e devozionali. Caro a quasi tutte le divinità del mondo, ha variamente significato sacralità, spiritualità e cura. Proprio con una ritrovata “spiritualità” potrebbe aver fatto i conti qualcuno durante il lockdown.
Il ligustro, invece, è una pianta resistente, rustica, sempreverde, legnosa, che cresce in modo vigoroso in quasi tutte le condizioni di clima e suolo. Una riflessione, insomma, sul nostro modo di rapportarci con la Natura, mentre il respiro del titolo è quello che permette il vitale gioco di dare-e-ricevere che portiamo avanti con essa, inconsapevolmente, attraverso lo scambio reciproco di anidride carbonica e ossigeno.
Artista che apprezzo sempre molto è Mauro Ghiglione: in mostra la scelta di recuperare una testimonianza di storia recente per raccontare l’esperienza del presente. La maschera antigas appesa a un fil di piombo taglia lo spazio.
È un originale, è una di quelle utilizzate dai soldati dell’esercito durante la Seconda guerra mondiale. A ben guardare, un importante dettaglio: le lenti sono “oscurate” da uno strato di sapone. Si respira a fatica e ci si deve difendere anche dall’immagine, quindi. È questo l’immaginario senza immagini del titolo dell’opera.
E poi tra le altre, anche una mascherina in teca di vetro, legata al bordo da una catenella dorata, chiarissimo rimando a una forma di reclusione forzata. Chiusi e chiuse in casa, per giorni, senza possibilità di uscire… Ma era davvero una prigione?
Così come è parso inappropriato associare la pandemia alla guerra, lo è sembrato descriverci tutti e tutte, indistintamente, prigionieri e prigioniere delle nostre abitazioni. Certo è che molti scatti condivisi sui social hanno mostrato Le nostre prigioni dorate di cui “parla” il lavoro firmato Pier Giorgio De Pinto: la sua mascherina richiama quello spazio che spesso ci è stato mostrato sotto il peso dei filtri, attraverso i monitor, con cibo in quantità e frigoriferi ricolmi, ampia scelta di intrattenimento e il tempo riscoperto di assecondare passioni assopite ma pur sempre da privilegiati. Insomma, un po’ più della mera sopravvivenza.
A questa troppo diffusa e semplicistica associazione quarantena-prigionia, ai lamentosi senza averne diritto, alla superficialità di certi paragoni, l’artista vorrebbe mettere una museruola insonorizzante.
Eh sì, con il senno di poi, come dargli torto?
Immagine di copertina:
ANNE-CLAIRE VAN DEN ELSHOUT, Tribute to Michelangelo. Foto di Amina Gaia Abdelouahab
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