Stiamo parlando di Don Raffaè, dai lo conoscete tutti. O meglio, ne avete sentito parlare! Se però vi state chiedendo dove, vi faccio una proposta: “correte ad ascoltare” la canzone Don Raffaè di Fabrizio de André! Poi tornate qui a leggere alcune curiosità sul leggendario brano.
Don Raffaè è una delle canzoni più celebri del noto cantautore genovese e descrive la classica situazione in cui emergono due figure spesso presenti nei brani di De André: un potente (proprio la figura a cui si riferisce il titolo della canzone, ispirata al sindaco del rione sanità) e un secondino. L’intento è proprio quello di denunciare la situazione critica delle carceri negli anni Ottanta evidenziando la superiorità delle organizzazioni mafiose nei confronti dello Stato.
La prima idea di produrre un pezzo su Raffaele Cutolo venne a Mauro Pagani (colui che aiutò De André a comporre la parte musicale del brano) leggendo della “comoda vita” condotta in carcere dal boss.
L’idea del personaggio che “spiega cosa pensare” fu invece del cantautore genovese e fu ispirata da Vito Cacace, guardia notturna (di cui si racconta in ‘Gli alunni del tempo’, romanzo del 1960) avente il privilegio di essere l’unico a leggere il giornale e che quindi, assurgendo al ruolo di intellettuale, crede di poter spiegare agli altri cosa devono pensare, proprio come fa Don Raffaè con il brigadiere Pasquale Cafiero.
Cafiero si prestava meglio degli altri nomi alla rima: era perfetto con ‘brigadiero’, per esempio. Pasquale nacque dall’esigenza di rimane con Poggioreale
FABRIZIO DE ANDRÉ
La lingua doveva essere il napoletano. Un napoletano ricco di termini storpiati (‘son brigadiero’), parole napoletane italianizzate (‘un galantuomo che tiene sei figli’) e frasi altisonanti (‘prima pagina venti notizie / ventuno ingiustizie’).
In questo brano troviamo uno degli approcci più tipici di De André, la storia raccontata da un punto diverso da quelle che ci aspetterebbe: il soggetto è il secondino. La canzone infatti mira a sottolineare come l’assenza dello Stato permetta alla malavita di prenderne il posto. Si capisce infatti bene che tra i due soggetti, quello a stare meglio è senza dubbio il detenuto, trattato con rispetto da chi deve controllarlo e unica fonte di speranza per la soluzione ai problemi che il povero Cafiero si trova ad affrontare.
Quest’ultimo, infatti, nel corso della canzone implora lo sguardo del potente, con un crescendo di riverenze (“Voi che date conforto e lavoro / Eminenza vi bacio v’imploro”) che fanno capire a chi si rivolge in cerca di aiuto: non stiamo parlando dello Stato, se non si fosse capito.
Curioso quanto avvenuto durante l’ultimo tour, nell’agosto del 1998, quando Fabrizio riprese questo concetto (dopo aver cantato appunto Don Raffaè) scatenando discussioni e polemiche:
“Certe canzoni si spiegano da sole. È un dato di fatto, un terribile dato di fatto che in Italia mi pare ci sia il 12.5% di disoccupati. Se non ci fossero camorra, mafia e ‘ndrangheta probabilmente saremmo al 25%!”
Nella brano c’è anche un voluto riferimento a una canzone di Domenico Modugno, ‘O café (Ah che bell’ò café, pure in carcere ‘o sanno fà).
Don Raffaè, tra l’altro, è stata spesso associata a Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, che pare dirigesse anche dal carcere. Tanto è vero che, proprio dal suo luogo di detenzione, scrisse a Fabrizio:
“Ho ricevuto tre lettere da Don Raffaè e un suo libro di poesie, tra l’altro qualcuna molto bella. Si vede che, pur avendo fatto solo la quinta elementare, è un poeta, uno che pensa e riesce a sentire. Alcune sono davvero toccanti. Le bande camorristiche mafiose, chiamiamole ormai istituzioni antistatali, nascono là dove lo Stato lascia dei buchi. Si preoccupano quindi di dare lavoro, lavoro sporco e fottuto a chi non ne ha. Arrivano così a gestire un potere e hanno la possibilità di fare dei favori, anche se quello che chiedeva il brigadiere in Don Raffaè è un piacere ridicolo: farsi prestare il cappotto è una burla, che però fa capire le carenze dello Stato e i motivi per cui questi buchi vengono riempiti!”
Fabrizio rispose al boss per ringraziarlo, finendo poi per ricevere ulteriori lettere, a cui mai rispose:
“Un carteggio con Cutolo non mi sembra il massimo. Per finire in manette basta assai meno!”
Ritroviamo quindi il genio di Fabrizio De Andrè nei suoi appunti che preparò per i concerti. Appunti in cui si trovano le motivazioni che lo portarono a scrivere questa canzone:
“[..] La classe dirigente politica era intortata con quella economica, entrambe sembravano colluse con le organizzazioni criminali. Il pensiero del borghese medio si esprimeva più o meno così: ‘Un’ingiustizia (tipo la corruzione di giudici e finanzieri) se dà un profitto a me la chiamo fortuna, se il profitto lo ricavano i miei simili lo chiamo scandalo’ [..]”.
Possiamo dire con un’amara e ingiustificata serenità che il tema trattato in questo brano del 1990 sia ancora incredibilmente attuale?
Immagine di copertina:
Fabrizio De André, 1960. Foto di Italian newspaper
Scrivi all’Autorə
Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.