BORDI | Resistenza privata, preghiera di civiltà

BORDI | Resistenza privata, preghiera di civiltà

Tempi duri generano uomini forti, uomini forti generano tempi felici. Tempi felici generano uomini deboli, uomini deboli creano tempi duri.
30 Maggio 2024
5 min
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Suo nonno si chiamava Milton, Milton e basta. È la verità.
Era passato da Genova poco dopo l’armistizio, il 12 settembre 1943. Nascosto nella carbonaia di un treno da un macchinista di Livorno, che lo aveva trovato nascosto nei cessi della stazione: digiuno da tre giorni, i vestiti di miseria, l’odore peggio.

“Mica te ne frega di sembrare poi uno spazzacamino?”

Beppe Fenoglio – Una questione privata

Tra il Belbo e il Tanaro si era battuto con i badogliani, aveva liberato l’Italia, aveva votato monarchia ma aveva fatto la repubblica. Il 25 aprile in casa sua, quindi, era qualcosa di sacro e, al tempo stesso, una questione privata. Come una preghiera.

Ogni 25 aprile andava in corteo, ogni 25 aprile gli veniva un po’ da piangere quando ascoltava la lettura, con gli altoparlanti, delle motivazioni della medaglia d’oro alla Resistenza concessa nel 1947 a Genova.

Amor di Patria, dolore di popolo oppresso, fiero spirito di ribellione…”.

Lui era nato lì, dopo che sua madre aveva dovuto abbandonare le colline di fame e ritrovarsi a vivere tra le torri di fumo delle industrie. Lui sentiva ogni 25 aprile di dover saldare un debito con suo nonno e con tutte quelle persone che, staffette, combattenti, sostenitori, avevano restituito all’Italia la dignità della Storia.

Quell’anno però era diverso

Gli amici che lo avrebbero ospitato a pranzo avevano una figlia neonata e altri amici faticavano nel sopportare i pesi della vita; insomma, aveva deciso di non andare al corteo per stare con loro, fin dal mattino.

Bastava anticipare di un giorno. Bastava farsi guidare dalle parole di Calamandrei per saldare il proprio debito:

Se volete andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, nelle carceri, nei campi, dovunque è morto un italiano per riscattare la nostra libertà, perché è lì che è nata questa nostra Costituzione”.

Bastava farsi prestare la macchina dalla madre, che tanto al lavoro ci andava in bus, e dirigersi, di buon mattino, verso il Piano di Coreglia, tra Cicagna e Calvari, in Val Fontanabuona.

Dal telefono una voce gli dice che non deve tornare, che lei è tranquilla. Anche se un sogno è andato male, anche se si parlano per più di un’ora, fino a quando lui, di nome Beppe, Beppe e basta, arriva al “Campo prigionieri di guerra n. 52”.

“Non ti preoccupare, sono delusa e un po’ arrabbiata, ma sto bene. Tu goditi la tua preghiera”.

Beppe percorre il viale di Via Piani di Coreglia, là dove sorgevano le 44 baracche di legno, dove sorge oggi un piccolo monumento a ricordo della piccola Nella Attias e, ancora qualche passo più in là (giusto per annacquare i pensieri), fino a vedere l’edificio che fu dei marchesi Marana (destinato nel dicembre ’43 a luogo di detenzione di cittadini italiani di religione ebraica).

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Campo di Prigioneria n. 52. Foto di Mattia B.

Poco sopra quei piani, lungo la SP42, Beppe raggiunge la Cappella dei 10 Partigiani, fucilati nel bosco delle Paie. Nel verde silenzio che fa da anticamera alla Cappella, squilla il telefono. Un’altra voce, di sangue e di fantasmi.

Poi, con calma, i fantasmi prendono nome e quel braccio si dichiara ramo e quel passo si mostra vento. Ciò che fa paura, spesso, è ciò che non si conosce. Il telefono ora tace, tace Beppe, qualche sillaba sfila tra le foglie.

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Bosco delle Paie e Cappella dei 10 partigiani fucilati. Foto di Mattia B.

Chi è ancora imprigionato?

Il bosco è lussureggiante nonostante sia stato spianato dai nazi-fascisti e si trovi proprio sul ciglio della strada.

La Cappella riporta su un mattone centrale la scritta “3.3.1946”, anno di costruzione. L’altare e le pareti interne sono in ardesia, in ardesia la croce; in bronzo le piccole targhe con i nomi dei fucilati, le cui foto convesse escono dal marmo per stare nella dimensione del presente.

Sulle pareti interne e laterali i marmi ricordano i nomi e i fatti. Gli antefatti sono nella parete di destra, esternamente.

Dieci fiaccole in metallo sono mangiate dai licheni. Uno scheletro di ragno è attaccato al cancello della Cappella; uno, vivo, pende all’altezza di “PIOMBELLI SERGIO”, anni 18, detto “Fiore”. Il suo viso non è ancora pronto alla comparsa dei primi baffi, liscio come un sottile strato di neve, ancora glaciale per essere bucato da pionieristici fili d’erba.

Beppe osserva ogni dettaglio come a risolvere un cluedo: è il quadro della Madonna sopra la croce la chiave del tutto. È inclinato verso chi sosta lì davanti, le figure e i colori sono neutralizzati dalla luce, che trasforma il dipinto in uno specchio e questo in un’immagine di Beppe che scrive, con il sentiero celebrativo alle spalle e, davanti, un cancello.

“Chi è ancora imprigionato?”, sembra chiedersi Beppe. Quei dieci partigiani che, liberi nel coraggio di resistere, hanno affermato il valore della vita? O chi guarda e se ne sta rinchiuso nelle paure del benessere?

Sono passate le due. Gli allori e i tricolori brillano negli occhi, le fronde conservano l’immagine come paglietta dentro ai pacchi postali.

A Bisagno e Cichero

La strada sale, la temperatura scende, le distanze aumentano ma poi tutto si schiude in un’epifania sublime. Lungo Via del Ramaceto il “Casun du Stecca” è in primo piano, poco sotto il livello della strada; dietro, come una scenografia, l’anfiteatro meridionale del Ramaceto.

Il Dente del Ramaceto, a ovest, sembra un piccolo vulcano, soprattutto per la nuvola sopra la sua vetta che pare proprio fumo dal cratere di una pipa. Sopra il Casun ora passa nuovamente l’alta tensione; qui è iniziata la lotta di liberazione, recita la lapide di marmo.

La strada è stata costruita a fine anni ’50 si legge al Passo di Romaggi, a più di 700 metri di altitudine. Qui è iniziata la lotta di liberazione e si è fatta perlopiù a piedi.

Scendendo verso Cichero la macchina velocizza la storia: ora un bosco di castagni. Sono tanti, sono secchi, sono tantissimi. Qualche curva sopra, lunghi desolati pascoli dove corre l’eco dei fili elettrici. Prima il vuoto dei pascoli, come l’indifferenza degli italiani. Poi i boschi fitti, come i morti  delle montagne. Il ricordo delle case incendiate e altre fucilazioni, calore estivo di una non-estate del 1944.

Sono le quattro del pomeriggio quando Beppe si ferma a Costa di Cichero. Poggia una mano sul busto freddo di Aldo Gastaldi “Bisagno”:

“A Bisagno e Cichero – I Partigiani”.

C’è la chiesa, la statua e il cimitero. Beppe apre il suo taccuino, fitto di nero. Poche cancellature. Scrive:

“La libertà laica e civile si unisce alla spiritualità contadina. Ed è così naturale, a pensarci: i partigiani, Bisagno, loro sono Cristo che si è fatto uomo. Sono la Passione”.

Tutto muore e risorge

Beppe che ha inventato Milton è stato Milton. Cosa importa se è vera questa storia. Importa solo che è stata vera questa Storia.

Sotto al Ramaceto, la sua corona meridionale abbraccia Beppe e chiude l’inerpicarsi della stretta Val Cichero: tutto ciò che si vede è dentro ad un cratere. Tutto ciò che si vede è dentro la Storia.

Beppe guida verso valle.

“Pensa alle chiese e alle strade; che incredibile lavoro costruire ciò che non c’era, portare l’acqua, l’elettricità, la parola di dio, la posta, le merci e la gente. Noi diamo tutto per scontato. È molto più difficile mantenere che costruire”, dice nel silenzio della macchina.

“In Giappone c’è un tempio che viene distrutto per essere ricostruito (Santuario Ise). Ogni vent’anni e sempre uguale. Lo ricostruiscono per ricordarsi che tutto muore e risorge e tutto resta originale perché rinato”.

Una pausa. Poi la voce metallica aggiunge:

“Io forse non ne scriverò, segnatelo tu, magari ti serve: la vacuità è la condizione di ogni possibilità”.

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Corona meridionale del Monte Ramaceto. Foto di Mattia B.

Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su foto di Mattia B.


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Mattia Battistelli, nato nel 1989 a Genova, dove vive felicemente, dove scrive appena può e dove lavora dopo una laurea in legge, un master in criminologia e un’abilitazione da avvocato. Ha realizzato insieme a due amici un progetto di ricerca, sotto forma di reportage narrativo, sulle carceri sarde: #SARDEGNA#. Scrive racconti, per unire la passione per le storie alla sua curiosità. Tutto questo lo fa muovere.

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