Il 22 settembre 2025 si è svolto lo sciopero generale promosso da USB, a sostegno della Global Sumud Flotilla e in generale del popolo palestinese.
Lo sciopero intendeva bloccare l’economia di guerra che finanzia Israele e tutte le attività di produzione italiane, con lo scopo di fermare il Paese e costringere tuttɜ a concentrare l’attenzione su cosa sta accadendo non troppo distante da noi.
Obiettivo, almeno in parte, raggiunto. Dico “in parte” perché, ovviamente, potremo fermarci solo quando il genocidio cesserà.
Per quanto riguarda la manifestazione in sé, posso dire di essermi sentita partecipe di una comunità coesa ed energica, a prescindere dall’età; sono tornata a casa emozionata e consapevole di aver assistito a qualcosa di grande e potenzialmente rivoluzionario.

Si è parlato di antisionismo, anticapitalismo e decolonizzazione.
Perché sì, le manifestazioni possono essere informative e interessanti, contrariamente alla narrazione che ne fanno coloro che non vi partecipano e pensano si riduca tutto soltanto a vetrine spaccate e vandalismo, come riportano molte tra le testate nazionali.
Vorrei a questo punto condividere una riflessione più ampia sul modo in cui si discute la politica in Italia, con una buona dose di presunzione.
Tra le persone che si interessano di politica e provano ad analizzare il nostro presente c’è un problema che riscontro sempre più spesso negli ultimi anni: si tratta del continuo inneggiare alla complessità davanti ai fatti della realtà, confondendo, a mio avviso, il piano politico con il piano culturale.
La cultura e la politica sono certamente collegate, ma penso sia importante distinguerne i modi, i mezzi e soprattutto i tempi per comunicarle.
La cultura si può permettere di (anzi forse deve) complessificare, stimolare e alimentare quanti più dubbi possibili, anche senza offrire soluzioni.
La politica invece deve, a un certo punto, tirare le fila. Deve proporre risposte risolutive e per farlo deve sviluppare idee pratiche, anche forti e nette, solide e studiate, per potersi schierare e quindi lottare per esse.
La tendenza (per certi versi anche un po’ classista) a intellettualizzare tutte le questioni politiche agisce in direzione opposta.

Questa postura intellettuale si limita a sezionare la moltitudine di sfaccettature che può assumere la realtà scadendo nell’immobilismo o nel benaltrismo che, in situazioni di urgenza (vedi il genocidio in corso) non possono essere accettabili.
Inaccettabile è anche l’indifferenza, che sebbene dipenda strettamente dai mezzi di cui disponiamo, è oggi più condannabile che mai.
In sostanza, come accennavo prima, c’è un tempo della cultura e un tempo della politica; il primo è abbondante e il secondo è, purtroppo, scarso.

È importante riflettere su tutto, ma per risolvere i gravi problemi che il mondo ci chiama ad affrontare con una certa urgenza, occorre sviluppare idee politiche chiare (ma anche in formazione e non definitive) per poi agire di conseguenza.
Ritengo infatti che il dubbio debba convivere con l’azione politica, a patto di non paralizzarla.
Non occorre essere espertɜ di storia o luminarɜ di diritto internazionale per scendere in piazza, agire ed esercitare il proprio diritto di sciopero, voto e parola: questo è ció che hanno fatto coloro che hanno manifestato il 22 Settembre; seppur immersɜ in un clima di pessimismo, disillusione, propaganda violenta e precarietà, hanno capito che la questione, in questo caso, è più semplice di come appare.
Davanti a un genocidio comprovato, su cosa devi riflettere ancora?
Immagine di copertina:
Foto di Pietro B.
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