Ma quante ghe veü pe moî?
«Ma quanto ci vuole per morire?» si domandava Govi, alludendo ironicamente alla proverbiale tirchieria genovese… In questo caso, non sono bastati interi decenni a cancellare la fama dell’attore nato a Genova in Via Sant’Ugo.
A più di cinquant’anni dalla scomparsa, infatti, Gilberto Govi resta un emblema del teatro comico, capace di far ridere spettatori di ogni età e provenienza, ideatore di espressioni rimaste nel parlato anche di chi non conosce il dialetto genovese.
Esiste forse un modo più chiaro per far capire a una persona che ha sbagliato a infilare i bottoni nelle asole – saltandone uno – rispetto a dirle che è “abbottonata alla Govi”? O che ha fatto “gassetta e pomello”?
Gli esempi di attori teatrali e cinematografici capaci di influenzare in maniera evidente la lingua parlata sono estremamente comuni: dal «Parli come badi, sa?!» di Totò, al «Bboni, state bboni…» di Sordi fino ad arrivare a «Faccio cose, vedo gente» (rimasticazione di una battuta di Ecce Bombo di Nanni Moretti).
Il caso di Govi, però, rispetto ai grandi nomi sopracitati, rappresenta un’interessante eccezione.
Scopriamo insieme perché.
La scelta del dialetto
Nell’arco del Novecento assistiamo alla nascita di una nuova produzione poetica dialettale: in tutta Italia si riscopre il dialetto come strumento espressivo autentico, capace di superare la componente vernacolare e campanilistica. Il fenomeno interessa soprattutto l’ambito poetico, ma il teatro di Govi rientra perfettamente in questo quadro.
Nonostante l’attore genovese utilizzi, infatti, un linguaggio fortemente italianizzato – e quindi facilmente comprensibile anche ai foresti – la parola è continuamente accompagnata da un’espressività vivacissima, ottenuta grazie alla mimica facciale, alla postura e alla gestualità. La marcata inflessione dialettale perciò è solo una componente della “genovesità” di Govi perché, come lui stesso ci ricorda, «Il genovese è uno che quando deve dire una cosa….magari ne dice un’altra!».
Una maschera non comune
I testi teatrali che resero Govi tanto celebre da andare in tournée persino in Sudamerica – meta di moltissimi migranti liguri – probabilmente non avrebbero riscosso lo stesso successo se fossero stati portati in scena da altri attori genovesi.
Govi, infatti, arricchisce costantemente i copioni con elementi d’improvvisazione, spesso facendosi carico anche dell’adattamento in genovese a partire dal testo italiano e, soprattutto, dando concretezza e vitalità alla parola grazie alla sua innata capacità di farsi maschera della “genovesità”.
Ancor più delle celebri battute restano in mente le sue espressioni corrucciate o esterrefatte, il suo atteggiamento ora spazientito («Finirà Gigia, non so come, ma finirà!»), ora rassegnato («Va bene, tanto non c’è niente da fare, mi prendo due o tre raggi…»), i suoi vani tentativi di evitare altri paciughi.
Dal teatro alla televisione
L’arte comica di Govi sopravvive alla natura effimera del teatro grazie alla lungimirante scelta di registrare gli spettacoli più celebri per trasmetterli in televisione. Nonostante le banali inquadrature a camera fissa, questa sorta di “teatro registrato” o “teleteatro” mantiene intatta la sua vena comica a distanza di più di cinquant’anni.
Il mondo teatrale potrebbe criticare Govi accusandolo di aver corrotto la propria arte snaturandola – oggi più che mai, infatti, sono attuali le riflessioni sulla discussa riproducibilità del teatro – ma noi non possiamo che essergli grati perché questa scelta ci permette ancora oggi di ridere guardando Steva che si arrampica sugli specchi ne I manezzi pe majâ na figgia.
Immagine di copertina:
Collezione Museo Nazionale del Cinema, Vittorio Zumaglino
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