Antropologia, visione artistica e umana, attenzione ai processi sincretici e curiosità, tanta curiosità sono alla base della sperimentazione di un artista che, è il caso di dirlo, folgora lo spettatore con la lucidità delle sue sperimentazioni: Mauro Panichella.
Formato all’Accademia di Belle Arti di Genova ha approfondito, fin dalla sua tesi di laurea, le possibilità tecniche ed espressive della temperie Fluxus e performativa trovando in esse la via della libertà espressiva, ma c’è di più, molto di più.
Lo strumento, come protagonista e non come mezzo di riproduzione sono nella produzione di questo artista poliedrico il vero punto focale è il focus sul modo di creare l’immagine che prevale sulla stessa, è il demiurgo digitale la star e non, almeno necessariamente, il suo Adamo cartaceo.
L’intuizione, simile a quella di Munari, è semplice ma potentissima:
indagare lo strumento di riproduzione, in questo caso lo scanner, per capire il senso dell’immagine, e per farlo Panichella parte dall’archiviazione digitale degli oggetti trovati di cui il corpo, in primis il suo corpo, non fa eccezione.
Scansionando il proprio volto, il proprio corpo e ogni centimetro di sé, la propria identità si ricompone dopo una frammentazione nel linguaggio binario e si fa metalinguaggio, si fa avatar digitale; secondo un’analisi sociologica e artistica pionieristica per il 2007, agli albori dei social network e quando l’identità digitale, che ad oggi appare ovvia e quasi superata, nasceva senza lasciar presagire il suo contenuto totalizzante nelle nostre vite.
Non era critica sociale, era ricerca.
Gli elementi che appaiono basilari nel percorso di ricerca dell’artista sono essenzialmente tre: la luce, gli oggetti trovati e il rapporto con l’acqua in ogni sua forma.
Come ciò ha trovato forma, ha suggerito pensiero e ha stimolato emozioni lo si evince parlando con lui che, al pari di una matrioska, rivela lati e prospettive di una personalità mutevole: un artista che contiene un antropologo, che contiene un filosofo.
Come la sperimentazione fotografica, per mezzo dello scanner, prende il suo posto d’onore nel tuo lavoro?
La scansione di oggetti trovati è un filo rosso che percorre la mia via da sempre non limitandosi all’oggetto nella sua immagine ma penetrandone texture, consistenze e specifiche.
È il livello zero della mia consapevolezza artistica e se consideriamo la similarità tra il movimento della luce dello scanner e la risacca marina l’equazione immaginativa è completa.
Sulla base di ciò ho elaborato una mia tecnica di riproduzione, debitrice della cianotipia e del Gyotaku, lo Scantype.
Il mare si configura come musa, fonte inesauribile di ispirazione e passione, come si traduce ciò nelle tue opere?
Il mare è il primo donatore degli oggetti trovati, lo fa con naturalezza e generosità.
Il mare è il coautore della mia opera “Fulgur (44°19’38.9”N 8°30’16.3E)”che nasce dalla sincronicità apparsa nella passeggiata in riva al mare, nel ritrovamento casuale e potentissimo di ossa di capodoglio usate come fioriera in uno stabilimento balneare.
L’intuizione che quelle ossa, oggetti di una vita che fu, potessero diventare un’opera d’arte ha convinto il proprietario a cedermele e lì è iniziato un processo che, passando dallo studio di manuali di tassidermia dell’Ottocento per arrivare alla rilettura di Moby Dick (articolo di wall:out Anatomia di una balena), ha dato alla luce Fulgur che riporta nel suo nome, le coordinate del luogo del suo ritrovamento.
Non è tutto.
Il cranio mi è giunto corredato anche di un certo numero di costole sempre di capodoglio che ho voluto destinare a una performance alla quale sono molto affezionato: il rituale dell’inatteso, oggi visibile al Museo Casa Jorn di Albissola.
In questa circostanza ho lasciato le ossa alla terra, similmente come fatto con il teschio, per essere trasformate e successivamente le ho posizionate nei principali punti cardinali.
Mi piacerebbe molto poter donare l’opera come fatto con Fulgur.
Hai parlato di manuali di tassidermia, quale ruolo hanno avuto nel processo d’individuazione dell’opera?
Le ossa di cetaceo sono ricche di sostanza grassa e ciò provoca colorazione, odore e patina particolare e per ovviare a tale situazione i testi più antichi in materia di tassidermia mi hanno dato un grande aiuto.
Seguendo il loro esempio ho lasciato che la natura elaborasse se stessa e ho messo le ossa sopra un formicaio monitorando e documentando tutto per mesi.
Il processo è stato sorprendente nella sua evoluzione e nel suo essere dimostrazione dell’appartenenza universale di quel pezzo.
Anche da questo è nata la mia decisione di non monetizzare Fulgur e di donarla al Museo delle culture del Mondo D’Albertis di Genova.
Il capolavoro di Melville sembrerebbe essere, anche dalle tue parole, guida e ispirazione, ci sono delle parti che più di altre hanno influito?
Si, senza dubbio il capitolo 31 dove viene mostrato il rituale del fuoco consistente in un falò acceso nei pressi dello scudo del cranio di un cetaceo, sede dello spermaceti, materiale fondamentale per la creazione delle candele e quindi dell’illuminazione artificiale.
Tale caratteristica biologica è stata, per secoli, la condanna a morte dei cetacei che, anche grazie alle innovazioni in campo elettrico, hanno trovato tutela e pace, nasce così l’installazione della luce al neon, salvezza e redenzione di questi animali.
Tale sperimentazione ha fatto nascere in me una domanda antica e universale: cos’è disposto a fare l’uomo per la luce?
Il rapporto con temi come la luce e le sue implicazioni filosofiche, la passione per l’antropologia e una curiosità dilagante si avverte chiaramente dalla passione che metti in quello che fai.
Fulgur è stata la prima esperienza in tal senso?
No, è una strada che percorro già da anni e che ho approfondito con Claudio Costa ai tempi dell’installazione La distanza del Cielo presso Willy Montini Arte, dove il tema era il rapporto che le antiche società avevano con il cielo inteso come limite o come spazio in continuità con Conversation about snake nel 2015 installata al Museo di Villa Croce di Genova.
L’esperienza svolta nel 2015 in collaborazione con Antonello Ruggieri è stata totalizzante, come sempre dovrebbe essere l’arte, uscendo dai limiti delle definizioni e delle categorie.
Lavorando sono nate delle opere e video installazioni che avevano la pelle del serpente, scansionata e rielaborata, come grande protagonista.
È nata, da queste premesse, una capanna cosmica, al cui progetto ha collaborato anche il compositore Massimo Pastorelli, con resa con quattro neon di colori diversi, debitrice di Warburg e dei suoi studi sui rituali del serpente.

Antropologia, arte performativa e installazioni multimediali.
Se c’è, qual è il ruolo della musica?
Importantissimo, specialmente lavorando con professionisti come Massimo Pastorelli e Piera Pavanello che fanno di musica e coreografia una grande anima al servizio dell’arte.
Mauro Panichella, un novello alchimista, trasmuta ciò che tocca (sarebbe meglio dire ciò che trova), attraverso la sua personale visione, navigando tra secoli di ricerca antropologica e filologica.
Ossa di capodoglio, luci al neon, pelli di serpente, musica, coreografia e visione sono ingredienti che Panichella ha saputo e sa orchestrare con la maestria di un giocoliere.
Vedere Fulgur (44°19’38.9”N 8°30’16.3”E), oggi in prestito presso la mostra di Palazzo Ducale di Genova Moby Dick – La Balena, ci acceca nella potenza di un messaggio eterno che coinvolge, in prima battuta, il nostro cervello rettile come qualcosa di potente e solo successivamente viene processato nella complessità delle sue implicazioni culturali.
Cos’è disposto a fare l’uomo per la luce?
Questa domanda ricorda il passaggio di una canzone dei Thirty Second to Mars, “Hurricane” dove il cantante lacera il suono con una frase “cosa sei disposto ad uccidere per avere ragione?”.
La luce come estrema forma di verità, ragione, intelletto e potere sugli elementi, luce come vero potere per un’umanità che si è affrancata dalla piaga della morte grazie alle sue scintille di calore e splendore.
Un unico tema sembra emergere nel lavoro di Panichella, declinato in modi sempre nuovi, intelligenti, stimolanti ed emozionanti ai limiti della commozione, la perenne ricerca cara a Prometeo quanto ad Eva: la conoscenza.
Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su foto di Mauro Panichella
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