Secondo Zygmunt Bauman viviamo in un’epoca liquida. Molto presto impariamo che i liquidi si appropriano della forma di ciò che li racchiude. Un po’ come accade a noi nella comunità in cui ci muoviamo. L’individuo muta e, come i liquidi, cerca una re-identificazione continua che, per il sociologo, genera contemporaneamente attrazione e dolore. Ciò che attrae è la possibilità di sperimentarci attraverso molteplici “noi”. Molteplicità che però può confondere, perché porta con sé l’incertezza e con l’incertezza il dolore. Per Bauman, il dolore è conseguenza dell’impossibilità di prevedere il futuro. Analogamente, la difficoltà di individuare e rappresentare la propria identità genera disagio.
Instagram rispecchia perfettamente questa liquidità, che permette una re-identificazione continua, generando così il binomio attrazione-dolore. Mai è stato così semplice mutare, più difficile è però trovare una forma che ci rispecchi. Su Instagram possiamo raccogliere i frammenti di ciò che siamo e ri-assembrarli nell’ordine che più ci soddisfa. Per poi scambiarli ancora, spostarli, eliminarli. Ma non è solo questo gioco a interessarci. Ci sono altri giocatori, seduti nei tavoli vicini, che compongono anch’essi il loro puzzle. Ovviamente la curiosità è forte e quindi ci si sporge a osservare. E così fanno loro. Ed è proprio da questi scambi di sguardi, che si rinnovano di volta in volta l’attrazione e il disagio.
La nostra identità è influenzata dalla visione che gli altri hanno di noi e, di conseguenza, da come noi ci percepiamo attraverso lo sguardo altrui. Instagram non ha fatto altro che amplificare il tutto.
Rapporto tra Instagram e la costruzione dell’identità
In merito al rapporto tra Instagram e la costruzione dell’identità, ho realizzato un’indagine empirica (form Tu e Instagram) che coinvolge 136 giovani, che hanno risposto a domande riguardanti l’utilizzo della piattaforma e i conseguenti effetti. I grafici presentano valori che vanno da 1 a 7 (1= no per niente / 7= sì molto).
Esplicativa è la wordcloud che racchiude le parole chiave tratte dalle riflessioni degli intervistati sulla sofferenza provocata da Instagram. Sofferenza che va di pari passo con il desiderio di rimanere connessi e partecipare alla co-creazione delle nostre identità virtuali.
Uno degli scopi di tale ricerca è quello di capire quanto sia importante che il nostro puzzle ci rappresenti e ci comunichi esattamente come vorremmo agli altri.
Come si evince dal grafico, alla domanda:
“Ritieni che avere un profilo Instagram interessante/curato/estetico influisca positivamente sulla percezione che le altre persone hanno di te?”
Su 136 persone ben 80 hanno risposto positivamente. Direi che sembrerebbe importante. Come mai lo è?
La nostra identità si costruisce tramite le interazioni sociali e dunque la formazione della soggettività è un continuo processo di comunicazione, sia con se stessi che con gli altri. Comunicazione che si è modificata e centuplicata a seguito dell’utilizzo massivo dei social. Da qui si origina la necessità di raccontarsi accuratamente, per affermarsi e identificarsi. Da ciò comprendiamo meglio perché chi ha risposto al questionario predilige un profilo personale, che favorisce la narrazione di sé.
Come è successo che una piattaforma abbia conquistato tale potere e influenza sulla nostra identità? E come ci ha modificati?
Questa domanda l’ho posta anche a Eugenio Damasio, sociologo genovese, esperto di identità digitali, cofondatore e project manager di No Panic Agency.
Insieme abbiamo discusso su quanto siamo cambiati da quando l’identità digitale si è aperta un varco all’interno delle nostre vite. Ma anche di quanto possa risultare difficile identificare i contorni di questa rappresentazione virtuale e ancor più sulla necessità di sviluppare una profonda consapevolezza sui confini che questa debba avere.
Intanto, “Digital 2021” (report condotto da We are social in partnership con Hootsuite) quantifica questo cambiamento: è di 7 ore la media globale del tempo speso online (circa il 42% del nostro tempo di veglia), di cui quasi 3 passate sui social.
Vista la presenza preponderante del digitale nelle nostre vite, forse sarebbe anche il momento di parlare di formazione all’identità digitale, per poter essere guidati in modo consapevole alla sua creazione ed utilizzo. Formazione che per essere efficace dovrebbe cominciare presto, quantomeno prima dei 13 anni, età dalla quale la normativa vigente autorizza i minori all’utilizzo dei social network.
Per chiudere il cerchio, Eugenio Damasio mi ha raccontato il paradosso della nave di Teseo. La leggenda vuole che per conservare la nave su cui viaggiò l’eroe, le parti che via via si deterioravano venivano sostituite. Giunse infine il momento in cui tutte le parti originali erano state sostituite. E quindi viene da chiedersi: la nave di Teseo è ancora la nave di Teseo?
Ritornando alla riflessione iniziale sulla liquidità che ci caratterizza, grazie anche alla possibilità di scomporci e ricomporci virtualmente, mi e vi chiedo:
l’Io reale è ancora tale, oppure è stato sostituito dall’Io digitale?
Immagine di copertina:
Illustrazione di Martina Spanu
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