Corpi e voci di una generazione: in scena “Zeta come gli ultimi”

Corpi e voci di una generazione: in scena “Zeta come gli ultimi”

Venerdì 9 maggio Zeta come gli ultimi crea nello spazio scenico la possibilità di un incontro con le voci di una generazione che spesso non trova ascolto e che pure parla di tuttɜ.
7 Maggio 2025
7 min
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Ciò che accade nello spazio di un incontro profondo è qualcosa come un prendersi cura di quanto ancora non conosciamo, cedendo parte delle nostre convinzioni, rinunciando a dir subito e subito definire, sostando in una distanza che sola permette il riconoscimento, lo scambio, l’avvicinamento.

Il progetto Zeta come gli ultimi parte dalla consapevolezza di quanto difficile eppure necessario sia incontrarsi, soprattutto quando si parte da posizioni strutturalmente diverse, soprattutto quando a prendere parola sono coloro che di rado sono interpellatɜ in prima persona: le persone che costituiscono quella che si chiama la Generazione Zeta.

Attraverso una tre giorni di laboratorio per giovani tra i 15 e i 25 si co-costruisce un testo scenico in cui molteplici linguaggi ed esperienze si intrecciano per portare sul palco una narrazione corale che interpella il pubblico in molti modi.

Abbiamo chiesto a Federica Loredan, che insieme a Lorenzo Zuliani, in arte 14498, ha ideato Zeta, di raccontarcene.

Corpi e voci di una generazione in scena. Teatro della Tosse, Genova
Foto dal comunicato stampa “Zeta come gli ultimi”. Fonte Teatro della Tosse

Com’è nato il progetto?

Lorenzo all’inizio aveva 24 anni, è stato un mio allievo storico che ho visto crescere artisticamente, passando dalla danza al rap, trovando in lui un grande talento.

Volevo dare spazio al suo modo di scrivere, molto puntuale e tagliente, ma anche portare in scena un confronto tra due generazioni, per far sì che potessero cadere le lenti con cui guardavamo l’uno all’altra ed è stato molto potente, anche per chi come me ha per lavoro consuetudine a frequentare le persone più giovani.

L’obiettivo era quello di togliere stereotipi ed etichette con cui le persone adulte guardano a queste generazioni e dar loro modo di riprendersi parola, creando una cassa di risonanza per istanze generazionali.

Dal nostro confronto e dalla nostra scrittura Zeta è diventato un progetto con un’autorialità diffusa e condivisa:

abbiamo fatto in modo che non fosse più solo la storia di Lorenzo e che si allargasse invece la cerchia, attraverso diverse modalità, per portare in scena la voce dellɜ ragazzɜ.

Le loro testimonianze sono confluite nel corpo, nella scrittura, nei testi.

Strada facendo altre persone hanno cominciato a collaborare con noi in maniera attiva: Lorenzo avrebbe dovuto essere solista dello spettacolo nella sua ideazione originaria, poi ne è diventato “solo” voce, mentre il corpo è quello di Chiara Gilioli, performer molto brillante, con un background europeo, che è leggermente più grande della generazione di riferimento ma la incarna benissimo.

Sia Lorenzo che Chiara condividono con me una certa credibilità nella scena hip hop che permette di rappresentare anche questa dimensione.

Un’altra collaboratrice importante è Giorgia Ponticello, che inizialmente si è occupata della gestione dei social media, per poi aiutare nella progettazione delle interazioni con il pubblico sia dal vivo che online.

Da un lato, infatti, lo spettacolo ha delle aperture in cui il pubblico viene chiamato a interagire dal vivo.

Dall’altro, insieme a Giorgia abbiamo progettato una serie di confronti online per avere una mappatura di dati su tematiche trasversali, costruendo interazioni diverse e avvalendoci di diversi contributi.

Questa dimensione partecipativa c’è anche nella preparazione dello spettacolo, per cui ogni volta apriamo il laboratorio a una decina di ragazzɜ che abbiano voglia di mettersi in scena e portare le loro istanze.

Corpi e voci di una generazione in scena. Teatro della Tosse, Genova
Foto dal comunicato stampa “Zeta come gli ultimi”. Fonte Teatro della Tosse

Perché avete scelto questo nome, Zeta come gli ultimi?

Zeta è il nome che viene dato a questa generazione, mentre “ultimi” è una parola molto evocativa. Anzitutto fa riferimento al momento storico in cui questa generazione arriva, facendosi carico di molte battaglie per difendere l’accesso a risorse in esaurimento, che si tratti di welfare sociale, clima, possibilità lavorative.

Poi le persone di questa generazione sono sempre trattate come bambine, sempre tenute per mano, sempre lasciate un po’ in fondo: sono gli “ultimi” anche a ricevere la possibilità di parlare e spesso vengono lasciate fuori dal dibattito che le riguarda.

Forse sono anche le ultime persone che possono innescare un cambiamento, come se dopo di loro i giochi fossero fatti e fosse ormai troppo tardi.

Corpi e voci di una generazione: in scena “Zeta come gli ultimi”
Foto dal comunicato stampa “Zeta come gli ultimi”. Fonte Teatro della Tosse

Che tipo di esperienza sono stati i laboratori con le persone giovani?

Il lavoro non ha una definizione a priori. Nel corso della mia esperienza professionale che ha coinvolto fasce sociali molto diverse, dal carcere alle persone con disabilità, dallɜ studentɜ a rischio dispersione scolastica alle persone sorde, mi sono costruita una bella cassetta di strumenti e, a seconda delle persone che ho davanti, tiro fuori quelli che mi sembrano migliori per metterle a loro agio e costruire così un gruppo di condivisione. 

All’inizio del percorso, in residenza artistica, abbiamo avuto modo di confrontare diverse pratiche di lavoro e di metterle all’opera in contesti molto difficili, come Istituti Scolastici in situazioni complesse, che però si sono rivelati fruttuosissimi in fase di creazione: abbiamo preso tanto di ciò che è poi diventato parte del lavoro e molte delle persone allora coinvolte sono rimaste in contatto con noi.

Solo successivamente abbiamo lavorato anche con ragazzɜ che avevano avuto accesso a percorsi di formazione artistica, sia alle medie, che alle superiori e all’università. Una fascia d’età abbastanza ampia, che però ci ha fatto capire come i temi emergenti non fossero così diversi: le questioni portate dalle persone che frequentavano la prima media potevano essere quelle di una persona adulta come me.

Ci siamo allora interrogati su come la Gen Z assorba e rimandi in maniera più esplicita ciò che, in fondo, tuttɜ proviamo, forse anche in ragione del fatto che ha meno risorse per assorbire gli urti che questo sistema comporta.

Questi progetti partecipativi partono da una traccia che, a seconda del gruppo che arriva, diventa porosa, permeabile, ci sono delle integrazioni, delle cancellazioni e delle modifiche.

Sento di dover fare un lavoro che sia per loro ricco e nel contempo capace di farlɜ sentire in sicurezza per andare in scena senza essere a disagio.

Il passaggio alla scena sembra effettivamente molto delicato, come si gestisce?

Chiara, che mi segue dal 2019, parla di una magia, che attribuisce in parte al mio lavoro, in parte a ciò che si crea con i gruppi.

Io parto sempre da un altissimo grado di fiducia, per cui tutto quello che accade è giusto, bello, funziona: in scena vogliamo che ci siano loro e per questo le loro posture, i loro modi di parlare e di fare, non potrebbero essere che così. Non c’è nulla da correggere.

Dichiarare apertamente che tutto è giusto e che tutto va bene trasmette questa grandissima fiducia che consente loro di aprirsi e liberarsi.

Le azioni che sono chiamatɜ a fare sono più parte di un processo che non di una coreografia e, dal momento che in scena sono comunque accompagnatɜ dalla presenza dei due professionisti, tutto si amalgama in una maniera piuttosto fluida, lontana dalla richiesta di prestazione.

Quello che mi è stato restituito da chi aveva partecipato ad altri progetti è che in quel momento si è talmente tanto dentro l’azione che non c’è il pubblico, non c’è più la scena, perché si è solo lì, nel gruppo.

Credo che questo avvenga anche per le persone più giovani, sebbene per loro la dimensione dell’essere vistɜ sia una questione diversa per via dei social, ma c’è sempre questa forza del gruppo che lɜ sostiene, per cui anche chi non ha esperienza riesce poi ad andare in scena.

Anche per chi non ha esperienza il linguaggio teatrale risulta accessibile.

Nel momento in cui ho cominciato questo percorso mi sono documentata su esperienze affini e credo che la specificità del nostro lavoro sia di usare la danza nella forma dell’hip hop e della street dance, il testo nella forma rap e della street poetry, una narrazione e una metrica a cui l’orecchio della Gen Z è abituato.

Le immagini che Lorenzo porta nei suoi testi sono molto efficaci e c’è una musicalità nelle sue parole che permette di veicolare significati molto profondi. Credo insomma che la scelta dei codici sia stata molto puntuale per l’obiettivo del progetto.

Un progetto che ha anche una dimensione di ricerca.

La ricerca-azione è sempre stata il modo in cui lavoro: una creazione artistica che abbia anche un impatto sociale, dove la performance è sia il campo di raccolta dati, sia lo strumento con cui attivo questa ricerca, ma anche il modo in cui la restituisco al pubblico.

La condivisione con il pubblico di un lavoro del genere può essere particolarmente intensa: come sono state le reazioni in sala?

Mi baso soprattutto sulle ultime repliche, perché Zeta è un progetto relativamente giovane e quando abbiamo debuttato a Perugia l’anno scorso lo spettacolo era in forma embrionale, molte delle sue caratteristiche sono maturate solo dopo.

A novembre sono rimasta stupita dalla reazione del pubblico al Teatro della Tosse. Abbiamo fatto due spettacoli, uno mattutino per le scuole e uno serale per adultɜ che hanno portato moltɜ figliɜ, nella convinzione che fosse pensato per loro.

La mattina il risultato maggiore è stata la grandissima attenzione con cui le scolaresche hanno accolto la rappresentazione: non è volata una mosca e si sono risconosciutɜ in quello che è stato portato in scena.

È stata una testimonianza preziosa del fatto che lo spettacolo è stato scritto dal loro punto di vista e non da quello di un’adulta che parla di loro: per me era necessario ma difficile fare talvolta un passo indietro pur continuando a mantenere la guida della regia e della coreografia, ho dovuto accettare qualche ingenuità tecnica per poter però preservare l’autenticità espressiva.

La sera è stata molto emozionante, perché, quando si è accesa la luce, la commozione era visibile:

moltɜ genitorɜ avevano abbracciato lɜ figliɜ e sono venutɜ a ringraziarci perché hanno capito che era uno spettacolo per loro, grazie a cui comprendere qualcosa di quelle problematiche che avevano pensato riguardassero lɜ figliɜ individualmente e che hanno invece scoperto avere portata generazionale.

Anche nella replica di Lugano, con tutt’altro tipo di pubblico, ci sono state standing ovation spontanee seguite da molti messaggi di ringraziamento. È un tema di cui bisogna parlare: è necessario accendere una luce, in una maniera che sia attiva e non passiva. Questo è l’intento: fare uscire il pubblico con dubbi, riflessioni e nuove prospettive.

Info e biglietti

Zeta come gli ultimi è in scena al Teatro del Ponente di Genova Voltri venerdì 9 maggio alle 19.30 nell’ambito della rassegna “Resistere e Creare”.

I biglietti sono in vendita online, sul sito del Teatro della Tosse e della piattaforma partner, e alla biglietteria di Piazza Negri (martedì/sabato 15-19).

Per info su costi e riduzioni, contattare via mail a:
promozione@teatrodellatosse.it – ponente@teatrodellatosse.it
Oppure telefonicamente allo 010 25 70 793

Immagine di copertina:
Foto dal comunicato stampa “Zeta come gli ultimi”. Fonte Teatro della Tosse


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