Beyond Genoa Scene (link) è una rubrica che consiste in una serie di interviste in profondità agli artisti elettronici del capoluogo ligure. Dj, produttori e performer ci raccontano del loro rapporto con la città, dei loro progetti e degli approcci alla creazione e alla performance. Raccoglieremo storie, idee e contenuti dei musicisti e dei dj locali, al fine di promuoverli e fare luce sulle peculiarità della scena cittadina. In questo articolo: Mass Prod
Martino Marini in arte Mass Prod è un vero e proprio punto di riferimento per l’underground cittadino. Sicuramente è uno dei genovesi che hanno portato più in alto la bandiera in giro per il mondo. In questa intervista abbiamo parlato di mondo discografico, del suo progetto di tesi, di didattica, dei viaggi in America e molto altro.
Eccolo! Ciao Marti, come andiamo?
Bene Franco! Lei come va?
Benone grazie! Vuoi presentarti?
Mi chiamo Martino, sono nato a Genova e faccio musica da quando ho memoria. Ho suonato parecchio in giro per l’Italia, in Europa e nel mondo e ho prodotto molti dischi.
Partiamo con la domanda canonica: com’è stata la tua esperienza Covid?
Devo dire che è stata molto bella, mi ha permesso di approfondire la relazione con me stesso. Ho trovato l’amore ed è iniziata una convivenza. Prima della pandemia non ho mai avuto il tempo necessario per riflettere così profondamente. Ho potuto pensare tanto. Ero uno di quelli che credeva che prima o poi sarebbe successa una cosa simile. Ritengo che fosse necessario uno stop generale per guardarsi dentro, nonostante la tragedia che purtroppo mi ha colpito anche da vicino.
Inoltre questo grande cambiamento mi ha permesso di togliermi abitudini alimentate dallo stile di vita, dalla regolarità e dai paradigmi. Per cattivo gusto o per goliardìa ho sempre spinto una sorta di mocking culture del safe the planet: kill yourself.
Questa strana esperienza mi ha messo in faccia tanti problemi su cui prima scherzavo. Mi ha fatto fare i conti con diverse cose e per assurdo sono contento di questo.
Mi manca suonare, cosa che faccio da quando sono ragazzino. Nonostante non fosse il mio lavoro mi manca molto, sia come performer che in quanto fruitore.
So anche che hai concluso da poco un percorso importante.
Mi sono laureato! Finalmente sono maestro di musica elettronica (ride).
Mi hanno sempre preso in giro chiamandomi maestro. Ho sempre avuto competenze più alte della media nel mondo del djing: non ne faccio un vanto, la media è molto bassa.
È un percorso che ho iniziato quando vivevo a Berlino, facevo il dj a tempo pieno. Poi è sopraggiunta la crisi dei trent’anni. Mi sono detto: ok, ho già studiato musica. Ma in effetti ho sempre avuto passione nel saperne di più. Non avevo mai affrontato quanto avevo studiato in profondità.
Avendo iniziato a suonare musica punk ed essendomi affacciato solo in seguito alla musica elettronica, ho sempre considerato il conservatorio come qualcosa di molto distante. Poi un giorno feci una scelta controtendenza: da Berlino decisi di tornare a Genova per studiare musica elettronica al Conservatorio Niccolò Paganini.
È stato un percorso fantastico. Ho avuto la fortuna di studiare col prof Roberto Doati: uno che ha visto Stockhausen, John Cage… lui c’era. Mi ha dato una formazione veramente genovese, di quelle che ti cacciano in mare e se torni sulla barca vuol dire che hai imparato a nuotare.
Vuoi parlarci del tuo progetto di tesi?
Si chiama “Dalla pietra al cristallo liquido”.
Inizia con una riflessione sul fatto che la voce sia il primo mezzo di comunicazione per l’uomo, ancora prima della parola. L’uomo di Neanderthal non aveva un cervello adatto a parlare ma possedeva organi abbastanza sviluppati per cantare, modulare dei suoni e poterli percepire.
Poi avanzo una riflessione di quanto la scrittura musicale, prima su pietra e poi su carta, abbia fermato la musica nel tempo, arrivando a parlare di come la carta e poi il computer abbiano influenzato la musica di per sé. Per chi fosse interessato, si può leggere anche online (qui il link).
Una parentesi di cui vorrei parlare: ho lanciato il mio Bandcamp su cui ho iniziato finalmente a vendere la mia musica. Ci trovate anche le composizioni della mia tesi.
Quindi hai deciso di gestire personalmente la tua distribuzione?
Si. Ho lavorato con tante etichette ma non mi ha mai pagato nessuno. L’idea è di mettere la mia musica online sia per avere un introito che sia mio, sia per metterla a prezzi più bassi rispetto agli altri portali e per fare in modo che se qualcuno volesse comprare tutta la mia discografia se la può portare a casa ad un prezzo molto più basso.
Credo sia importante per lanciare un messaggio alle etichette ma soprattutto per essere presente là fuori.
Ho provato per tanti anni a fare da piattaforma per aiutare gli altri, ma credo che se prima non riesco ad autogestirmi come artista sarà molto difficile farlo.
Una scelta importante che prendi consapevolmente visto che la tua carriera va avanti da un po’.. si può parlare di una carriera?
Beh, ormai sono vent’anni (ride).
Tu che consiglio daresti ad un giovane musicista che lavora già da un po’ di tempo sulla propria musica ma che è in fase di avvicinamento al mondo discografico?
Collaborare con altri e lavorare a stretto contatto con dei professionisti è molto importante. Io ho lavorato molto con ragazzi giovani per aiutarli a suonare un po’ meglio, ma bisogna diffidare da chi promette.
Un altro grande ostacolo è riuscire a togliersi il trend di dosso. L’Italia è il paese della moda, qua tutto è moda.
Il consiglio è di fare buona musica, che sembra scontato ma è la cosa più difficile, ed io mi sono sempre fatto aiutare.
Persone come Herva, Marco d’Aquino, Rufus o lo stesso Alessandro Adriani di Mannequin, per anni hanno lavorato nell’ombra e solo in seguito hanno ottenuto dei risultati. Questo dipende da quando hai la chance, perchè se rimani lì prima o poi arriva, tutto dipende da cosa hai da dire in quel momento.
Se quello che hai da dire è prrr, magari fai una pernacchia e te la spendi pure, ma quello che rimane è una pernacchia.
Per quanto riguarda il mondo discografico, spesso molte etichette attirano tanta attenzione ma non hanno la struttura per reggere. Magari sono brave nell’A&R, a scegliere i produttori e a trovare delle release, ma se gli parli di accounting o di licensing non sanno di cosa stai parlando. Questo è il più grande problema della musica oggi: tutti vogliono farla ma nessuno vuole fare parte della struttura che serve per farla e per renderla sostenibile.
Che posto ha trovato Genova nella tua esperienza musicale?
Quando ho iniziato a suonare vivevo a Genova. Era una città molto infelice, che difficilmente offriva qualcosa. Ciò che ho notato di più è il fatto che quando proponi di fare qualcosa insieme hanno tutti paura che glielo butti nel c**o, e questa paura fa proprio in modo che il tuo ano si dilati. Io sono molto collaborativo per natura ed ho sempre aperto i miei spazi.
Marmeria, il mio vecchio studio, era sempre aperto: ad un certo punto mi hanno rubato tutto, forse lo avevo aperto a persone che probabilmente non sarebbero dovute entrare. Ma, nonostante questo, credo che questo atteggiamento abbia sempre pagato, nel senso che ho sempre fatto musica, continuo a farla in tante forme diverse, mi sono tolto tante soddisfazioni, ho potuto viaggiare e collaborare con persone estremamente talentuose. Ho anche passato dei momenti bruttissimi con persone terrificanti, che per certi versi sono stati quasi più importanti.
Uno schiaffo te lo ricordi, una carezza tendi a dimenticarla. In ogni caso, il consiglio è quello di aprirsi.
Ti dedichi molto alla didattica?
Adesso sto insegnando su Zoom. Ho trovato tanti ragazzi fantastici (solo ragazzi ahimè, le ragazze purtroppo non arrivano) che hanno un gran talento. Stiamo facendo della bella musica. Io mi inserisco a metà del loro lavoro di produzione e cerco di velocizzare il loro processo creativo e a ottimizzarlo, nello stesso modo in cui il mio processo è stato ottimizzato da altre persone quando ero ragazzino.
La collaborazione è importante. Tanto tempo fa, con Rufus il nostro motto era music is love and love is to share, e sono sempre convinto di questo.
Fai buona musica, credici, diversifica le tue competenze. Fai in modo di lavorare su fronti diversi. Adesso sto producendo un po’ di persone, tra cui il progetto genovese Era Serenase, e parallelamente sto seguendo progetti nell’ambiente del conservatorio, come la scrittura di pezzi per arpa.
Mandatemi musica perchè io la ascolto. Sto partendo con un’etichetta che si chiama Party Store, con un amico che vive a Berlino, Chris Aldrich. È un’etichetta digitale concepita puramente per dare un output abbastanza spensierato ai ragazzi che sto seguendo e ad amici. Quindi mandatemi musica ma che sia buona musica…
Ci hai raccontato tanto e lanci anche un bel messaggio. Spero che tra chi legge l’intervista ci sia qualcuno che colga questa occasione.
Ti chiedo l’ultima cosa: nella tua esperienza musicale, hai voglia di ricordare un viaggio che ti ha segnato particolarmente?
Beh, io sono mezzo americano e ho sempre avuto una passione per l’America. Non ho mai vissuto là, ci sono andato molto tardi. Nei primi anni dal 2010 in poi sono andato a suonare molto spesso. Ho avuto la fortuna di stare a New York, Detroit, Los Angeles, Washington, Seattle, dove ho conosciuto persone incredibili.
Ho un po’ rivissuto la figata che c’era in Italia tra il 2003 e il 2007, nel periodo d’oro delle discoteche, quando noi eravamo segregati tra i centri sociali e i circoli ARCI. Non esistevano i club, erano stati inglobati dalle discoteche. Invece in America c’era una pacca mostruosa, tanta gente eccitata da questa scena ancora fresca, un miscuglio di persone molto vario.
Mi ricordava le feste che facevamo al Club 74, dove c’erano persone che venivano da Compagnia Unica e seguivano una moda più alternativa, c’era gente truccata, i nobili genovesi, i tagliagole… un po’ di tutto mischiato insieme creava una super vibe. Ho visto la stessa cosa succedere in America.
Come dj posso dire che Detroit è la città che ha visto i resident più incredibili. Suonava uno, suonava un’altro, poi suonavi tu e pensavi “ma ora che c***o gli dico a questi?!”. Il livello era altissimo e mi veniva voglia di suonare inginocchiato, sapendo quali erano i miei limiti. Poi il pubblico ha risposto molto bene e mi ha insegnato che non conti più degli altri se sei in questo o in quel punto del cartellone o prendi più soldi degli altri. Hai solo un’altro ruolo nel tutto, ma alla fine siamo tutti li per divertirci e ballare.
Grazie per la tua testimonianza. Avrei troppo voluto esserci (ride).
È stato veramente bello, sono sicuro che ti sarebbe piaciuto. La cosa assurda è che suonano un genere che è disco, techno e house contemporaneamente. Hai la musicalità della disco, il funk della house e le sberle della techno. Corrono come dei matti.
Grazie davvero!
Ti ringrazio, un abbraccio!
Martino si esibirà con un live-set venerdì 25 all’Ex Ospedale Psichiatrico di Quarto in occasione di CODE WAR Project 2020!
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Immagine di copertina:
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