Ventosa e fredda giornata di fine novembre: Genova in zona arancione ci impedisce di chiuderci nel caldo di un bar del centro. Ai Giardini Luzzati qualche bambino è rincorso dai genitori. Ci sediamo su una panchina, a distanza di sicurezza, mascherine a coprirci mezzo volto, per parlare con Rossella Bianchi.
Siamo in zona neutra, fuori cornice. Intorno a noi solo le piante aromatiche dell’orto sociale che resistono al principio d’inverno e il campetto da calcio vuoto. Non ci siamo preparate le domande, ci siamo solo confrontate sui temi che sarebbe bello far emergere nel corso di una chiacchierata libera che si autoalimenta. Gli stimoli non mancheranno, ne siamo certe. Abbiamo ragione.
Rossella Bianchi: per etichettarla potremmo dire transessuale, prostituta, poetessa, genovese per adozione e per vocazione; per descriverla, invece, capelli chiari vaporosi, alta, elegante nel portamento, più persona che personaggio. Ha una bella voce, pacata, che di tanto in tanto vola in Toscana, terra natìa. Figura cardine della vita del Ghetto Ebraico di Genova, custode della sua storia a partire dagli anni Sessanta, ha concesso tante belle interviste e quindi ci preme non insistere su aspetti già largamente indagati, talvolta con un eccesso di morbosa curiosità.
Ci interessa, più della sua storia intensa e colorata, già ampiamente narrata nei suoi libri (“In via del Campo nascono i fiori”, 2014; “Angeli con le ali bagnate”, 2016; “L’amico degli ultimi: Don Gallo visto dalle princesas”, 2018; un quarto in via di pubblicazione), il suo punto di vista su alcune questioni di attuale interesse, il punto di vista di uno spirito libero, diretto, spogliato di pregiudizi borghesi, che esprime le sue opinioni con quella gentile e pulita fermezza che solo la consapevolezza dell’esperienza diretta concede.
Centro Storico: ieri e oggi
Rimasi a Genova tre giorni e fu amore a prima vista. Amore non tanto per la città, che non ebbi modo di visitare, quanto per quei vicoli stretti e bui e al tempo stesso pulsanti di vita. I bar piccoli, squallidi alla vista alla luce del giorno, ma terribilmente affascinanti con le luci soffuse della notte, con il loro andirivieni di marinai di tutte le nazionalità e di prostitute.
(R. Bianchi, In via del campo nascono i fiori, Imprimatur, 2014, p.51)
Il centro storico che Rossella conobbe nel 1965 apparentemente non differisce molto da quello di oggi: il senso labirintico di compressione tra i caruggi, la scarsa illuminazione, il fascino della notte, la gente. E, soprattutto, la percezione che ci sia un confine invisibile tra i vicoli e Genova, per cui questi non si risolvono nella città, ma ne rappresentano un nodo e un’eccezione.
Un’eccitante eccezione, fatta di incontri casuali, divertimento e sesso – negli anni Sessanta.
Negli anni Venti, la vita al di là di Porta dei Vacca è decisamente cambiata, a partire dalla popolazione. Il Ghetto Ebraico è stato abbandonato da abitanti e commercianti italiani, avendo man mano lasciato spazio all’immigrazione. Come a ribadire che il quartiere è segnato da un destino di segregazione, gli extracomunitari che ci vivono sono sostanzialmente abbandonati a se stessi, visto che le istituzioni non vegliano nemmeno sulle drammatiche condizioni abitative cui sono costretti ad adeguarsi.
I bassi – che, ricordiamo, il Comune vuole rendere abitabili ovunque – talvolta mancano di servizi igienici o di impianto idrico. Altre volte sono di dimensioni così ridotte che non ci entrerebbe nemmeno un letto. Gli appartamenti ai piani superiori sono di norma sovraffollati, a causa di una prassi basata sul subaffitto ad immigrati in entrata nel paese da parte di proprietari italiani o altri connazionali.
Non è un mistero che lo spaccio sia una delle attività più note del Ghetto. Senza moralismi di sorta, Rossella sostiene che a fronte dei motivi per cui tante persone si trovano coinvolte in attività illegali, tanti abitanti sarebbero anche disposti a tollerare la situazione se solo il tutto non avvenisse condito di urla, risse, violenza e non arrecasse ulteriori disagi a un quartiere dagli equilibri già precari.
Oltretutto, la mancanza di un presidio fisso rende il Ghetto una terra di nessuno in cui le dinamiche di potere vengono ormai decise solo dalla criminalità.
“Chiaramente se, per rispondere alla richiesta di intervento, mandano due poliziotti e dopo che è finita la rissa, non serve a niente. A volte i vigili parlano con noi e sai cosa dicono? ‘Cosa li prendiamo a fare? Li troviamo con una o due bustine addosso, non fanno in tempo ad andare a Marassi che già escono e il giorno dopo sono di nuovo in strada. Che senso ha che rischiamo una coltellata, se poi va a finire così?”
È doveroso riconoscere che la criminalità è solo una parte della compagine extracomunitaria del quartiere, che, anzi, cerca di mettere una distanza tra chi osserva la legge e chi se ne colloca al di fuori; purtroppo, senza strategie per un’integrazione felice, il tessuto sociale del luogo sembra essere avviato verso una sempre maggiore ghettizzazione, man mano che le ultime attività commerciali di vecchia data si spengono e chiunque non accetti di essere preda dello spaccio cerca di trasferirsi altrove.
La vecchia rete di negozi e servizi che ravvivava Via del Campo negli anni Sessanta ha iniziato a smagliarsi tra gli anni Settanta e Ottanta e oggi l’unica eccezione alla regola dell’immigrazione sono gli studenti, che però si allontanano dal quartiere durante il giorno, considerandolo di fatto poco più che un dormitorio.
Il mostro dell’eroina e gli zombie del ghetto
Si diceva che intorno alla metà degli anni Settanta il quartiere cambia: non sono stati gli extracomunitari a trasformare il volto di quel pezzo di centro storico, bensì la droga e lo spaccio. Un’area che solo poco tempo prima poteva contare su una rete di servizi e di attività commerciali (negozi di frutta e verdura, lavanderie, alimentari, bar e locali di vario genere…), praticamente autosufficiente (“non serviva quasi spostarsi”), diventa il teatro dell’eroina e col passare degli anni si svuota. Lo “zoo senza sbarre”, come lo chiamava Rossella, non è più lo stesso. Prima ancora dell’eroina arriva il fumo che fa danni, sì, ma meno visibili, più impalpabili; tuttavia prepara il terreno a mostri ben peggiori.
Un esercito di zombie frequenta improvvisamente la zona: chi mai avrebbe voglia di viverla?
“Ci sono cadute quasi tutte”, ricorda Rossella, “un po’ per la disponibilità di denaro, un po’ perché la droga veniva offerta loro gratis, all’inizio, con la certezza che la volta successiva sarebbe stata una dipendenza economicamente fruttuosa, un po’ per la solitudine, un po’ per le relazioni sbagliate con spacciatori e drogati”.
Di quel periodo si è tanto parlato negli ultimi giorni, a seguito dell’enorme successo di SanPa, la docu-serie di Netflix che ha raccontato luci e tenebre della comunità di San Patrignano e Vincenzo Muccioli, il suo ambiguo fondatore, salvatore e intransigente castigatore dei reietti dimenticati da tutti.
“Eravamo quasi un centinaio. Più della metà è sparita; l’altra metà, qualche anno più tardi, l’ha fatta fuori l’AIDS. Si bucavano e con lo scambio di siringhe si moriva. Molto più raramente ci si infettava per via sessuale”.
Forse, dice Rossella, una sola del gruppo prese l’AIDS pur non drogandosi. Gli aghi erano il vero dramma.
La Comunità di Don Gallo, l’opposto di San Patrignano
C’era il controverso Muccioli a San Patrignano, con i suoi metodi violenti, le catene, la politica del bastone e della carota volta a “raddrizzare” i deviati, a riformarli come cittadini produttivi; negli stessi anni, però, si aggirava instancabile per i vicoli di Genova la minuta figura di don Andrea Gallo, il prete di strada vicino agli ultimi e agli emarginati, nessuno escluso, in un senso radicalmente opposto, dentro e non fuori la realtà sociale della città.
Il ricordo del Gallo – così amava farsi chiamare – è forte e caldo e regala a Rossella risate che arrivano alle lacrime. Ci fa dono di aneddoti divertenti, restituendoci ancora una volta l’immagine di un uomo intelligentemente ironico, profondamente umano, un combattente dotato di grande carisma.
Ogni volta che Papa Francesco dice qualcosa, “cazzo, l’aveva già detto Don Gallo!”, pensa ridendo Rossella.
Il Papa, d’altronde, è legato da troppi interessi, corre dei rischi. Don Gallo è stato una grande eccezione nel panorama ecclesiastico, un prete fuori dagli schemi che ha pagato anche il prezzo della sua ribellione: doveva salire la gerarchia della chiesa “due gradini per volta”, con una fatica immensa; “l’hanno rifilato in una chiesetta tanto per non buttarlo in strada”. Gallo, in guerra continua. Nel 2005, in una bella intervista condotta da Stefano Bentivogli, affermava che la sua comunità di San Benedetto al Porto, per dirla con Fabrizio De André “si muove sempre in direzione ostinata e contraria”. E poi dichiarava:
“Chi si droga non è un pazzo, un malato, un deviato, un debole o un pigro irresponsabile. È, prima di tutto, una persona. Legare il tossico al momento socioculturale è tentare di comprenderlo nella sua marginalità. Opporlo all’ambiente sociale è, al contrario, escluderlo in nome di una maggioranza parlamentare e, in quest’ottica, non sarà che un “deviante” da raddrizzare”.
Si opponeva allora con queste ferme e coraggiose parole alla discussa legge Fini sulle droghe.
Princesa: un progetto mai decollato
Ebbene, è stato proprio don Gallo a caldeggiare che le trans del Ghetto si riunissero in un’associazione. Quando la giunta Vincenzi minacciò la sopravvivenza della comunità di Via del Campo (vi abbiamo raccontato la vicenda anche qui Princesa: nel disperato tentativo di somigliare a se stess*), il Gallo si fece paladino di una battaglia che vinse, pur sapendo che la guerra era ancora lungi dall’avere conclusione.
Per questo, consigliò ai “suoi apostoli” (solo lui aveva l’autorizzazione a rivolgersi al maschile alle ragazze trans del quartiere!) di riunirsi in un’associazione che sostenesse la causa delle transgender, sex workers e non, con la prospettiva di rendersi socialmente utili e promuovere un’immagine virtuosa della comunità: e per un po’ di tempo, ha funzionato.
Nel 2009 è nata l’Associazione Princesa: tessera numero uno staccata a don Andrea Gallo. L’entusiasmo iniziale si è tradotto in un numero di iniziative, di cui la più famosa è stata la pubblicazione del calendario, e in una sede in vico della Croce Bianca, in condivisione con l’associazione Ghettup dedicata all’alfabetizzazione per stranieri.
“C’era tutto, la linea telefonica, la linea internet e avevamo come compito di prendere contatti con ragazzi che volevano intraprendere lo stesso percorso che avevamo fatto noi.”
Uno degli scopi dell’associazione Princesa è quello di far seguire questi ragazzi da professionisti endocrinologi, in grado di stabilire non solo il dosaggio, ma anche il tipo di ormoni corretti da assumere. Un altro impegno è quello di favorire un buon dialogo all’interno delle famiglie che non sanno come gestire il coming out e mediare laddove l’incomprensione rischia di diventare un muro doloroso.
Purtroppo, nonostante le collaborazioni con l’associazione Rainbow di Genova e con Regina Satariano a Viareggio, oggi le attività sono praticamente sospese. La dipartita di don Gallo ha raffreddato gli animi e tanti membri non si dedicano più all’associazione come prima. Per qualche tempo sembrava che la sede si sarebbe spostata proprio in piazza Don Andrea Gallo, ma al momento sia l’associazione sia l’amministrazione municipale non si sbilanciano sul futuro.
Transessualità – luci e ombre di un percorso complesso
Sebbene ancora al giorno d’oggi il percorso di transizione di genere non sia scevro da criticità (ilPost: Storie di transizioni), negli anni Sessanta si risolveva ancora in pratiche fai-da-te.
Rossella ci racconta che quando arrivò a Genova, c’era solo una farmacia disposta a vendere le dosi di ormoni, alla cifra criminale di 50.000 lire a iniezione, “…che poi ho scoperto, una volta, andando in una farmacia a Firenze, che si vendevano a 2.500 lire le confezioni per due iniezioni, DUE!!!”
Per altro, la cura ormonale non prescritta da uno specialista aveva l’effetto di danneggiare i reni, come è accaduto alla stessa Rossella. Per alcune sue colleghe, andare oltre alla fase del travestitismo ha significato anche l’imprudenza di procurarsi protesi che dire artigianali è fin riduttivo: c’è stata addirittura chi ha tentato di rendere il seno più prosperoso iniettandosi cera liquida, attentando così alla propria vita.
Nella comunità trans la questione della transizione chirurgica è un tema molto discusso.
Rossella è stata testimone di diversi episodi in cui la riassegnazione di genere non ha portato gli effetti sperati, anzi, ha peggiorato la qualità della vita di chi vi si è sottoposto. Quando le ragazze affrontano la riassegnazione per motivi superficiali, per esempio farsi apprezzare di più dal partner, l’esito dell’operazione finisce in scontentezza, rapporti troncati o, nei casi più gravi, in problemi psicologici o dipendenze.
È altrettanto vero che nei decenni passati in tante hanno rischiato sanzioni o detenzione nel tentativo di andare in quei centri dove la riassegnazione chirurgica era possibile senza troppe domande o indagini – Casablanca, per dirne uno –, segno del fatto che serviva una determinazione molto forte per affrontare un iter di per sé già pieno di difficoltà e incertezze.
In questo senso, Rossella trova che ci sia un atteggiamento verso l’esteriorità e l’estetica nelle giovani transessuali di oggi che non apparteneva in toto alla sua generazione.
La gara a chi ha gli zigomi più alti, il seno migliore, il profilo più affilato trova le sue radici nella competizione a chi era la trans più bella, elegante o charmant, ma su un piano di trasformazione del proprio corpo che va ben oltre lo spirito giocoso che animava la grande comunità del Ghetto.
Beninteso, l’esplosione del ritocco plastico non è certo appannaggio del mondo transessuale, ma è trasversale a tutta la società; qui assume, però, connotazioni di determinazione della propria identità difficilmente trascurabili.
Per Rossella, si tratta di una dimensione di femminilizzazione eccessiva. Una posizione controversa, che farà alzare più di un sopracciglio, ma che bisogna inquadrare alla luce della fierezza con cui Rossella rivendica l’appartenenza al “terzo genere”. Per lei, la transessualità è una condizione altra dal maschile e dal femminile, che può essere accolta e vissuta a pieno solo a patto di un’interiorità pacificata con le possibilità che la società garantisce a chi non si riconosce nel binarismo di genere, a qualunque livello: estetico, lavorativo, relazionale, ecc. Per questo, quando le chiediamo del concetto di “passing”, lo liquida con poco:
“Io sono sempre stata in una posizione defilata, ma non per un complesso di inferiorità – bella non ero, brutta neanche – ma perché per me era assurda l’idea di mettermi in concorrenza con le altre per un traguardo estetico. Il traguardo che a me interessava era quello di maturazione, di avere dalla vita quello che volevo, di farmi apprezzare per quello che sapevo fare e dire.”
E a questo collega lo stupore verso le piccole o grandi bugie che tante sue colleghe raccontavano di loro stesse, soprattutto dopo aver femminilizzato la loro figura: umili origini trasformate in trame per romanzi d’appendice, avventure, compagni di alto lignaggio mai esistiti…
“Io non rinnego niente. Non ho mai rinnegato di essere stata un uomo, di essere nata povera. Non mi è mai passato per la testa di nascondere che mi sono prostituita, che mi sono dovuta prostituire e che, una volta che ci sono stata dentro, con un po’ di difficoltà (ma neanche troppa), mi ci sono adagiata dentro, ci sono stata benissimo. Perché dovrei rinnegarlo? Perché dovrei fare l’ipocrita? Non me ne frega niente se gli altri lo sanno o non lo sanno, se mi approvano o mi disapprovano.”
D’altra parte, riconosce senza problemi un’utilità al cambio di genere (nel suo caso, da uomo a donna) sui documenti ufficiali. Lei stessa, così come molte altre, è incappata in numerose difficoltà presso dogane di paesi poco progressisti, che non hanno accettato il suo ingresso nel paese di destinazione dei suoi viaggi, o lo hanno concesso solo dopo svariate domande e inquisizioni.
Avere un sistema che azzera la curiosità morbosa di chi ci si trova davanti – “sarà un maschio o una femmina?”, “è una parrucca, quella?”, “come sarà in mezzo alle gambe?” e così via – è un modo conveniente di proteggersi e risparmiarsi spiacevoli inconvenienti, o peggio.
La Nuova Vetrina
La prostituzione è il mestiere di Rossella, che, come molti altri, deve oggi fare i conti con un insuperabile competitor: il mondo online. Sesso a pagamento? Oramai – ed è facilmente prevedibile – passa quasi tutto attraverso internet.
“Nei vicoli le ragazze giovani non vengono, siamo rimaste solo over 50/60”.
Resistono, tra i clienti del Ghetto, quelli che Rossella chiama gli aficionados, gli affezionati, i veterani, diciamo, del servizio “tradizionale”, che ancora prediligono vedere dal vivo prima di avere un rapporto. Rossella lavora nel Ghetto da cinquant’anni e ci sono, tra i suoi clienti, ex ragazzi ormai anziani. È chiaro: affidarsi alle foto su internet è un po’ come andare alla cieca, tra inganni e fotoritocchi, spesso fuorvianti.
Prostituzione: legalità non regolamentata, luoghi comuni e tabù
La prostituzione è un mestiere, sì, probabilmente il più antico del mondo, come si è soliti dire, tuttavia ancora privo di tutele. Tema delicato, questo; di fatto prostituirsi in Italia è legale, ma è un’attività non regolamentata. È illegale esercitarla quando entrano in gioco sfruttamento e sfruttamento minorile, induzione e favoreggiamento.
Un sistema ambiguo e ipocrita, quello italiano, che in sostanza si chiama fuori da qualunque responsabilità punendo esclusivamente le attività collaterali alla professione. Le complessità e la difficoltà di avere una visione chiara e univoca emergono anche parlando con Rossella.
“Paghi le tasse e fai il tuo lavoro, ok. Regolamentare la professione delle sex workers, però, significa non solo doveri, ma anche diritti. Lo Stato deve darti in cambio una serie di tutele, di conseguenza: questo è di suo interesse? Malattia, infortunio… E poi c’è un’altra questione: i clienti ti pagano in contanti, non certo usando il POS. E insomma, uno dichiara quel che gli pare e chi lo controlla?”
Le chiediamo quale sia oggi il ruolo dell’Unità di Strada, essendo a conoscenza del progetto “Hope This Helps” promosso da Regione Liguria.
La risposta di Rossella è secca: “Chi ci ha tutelate? Don Gallo!”.
Una presenza fondamentale, quella del Gallo, anche quando nel 2008 si fece mediatore tra il Comune di Genova e il sindaco Marta Vincenzi e la comunità trans, evitando la chiusura dei bassi di proprietà delle ragazze (sì, immaginatevelo un prete che difende i diritti di un gruppo di prostitute transessuali!).
Controlli a sorpresa dell’Asl negli appartamenti, guardia di finanza, polizia, carabinieri, sopralluoghi, multe, misurazioni, la dichiarazione di non abitabilità degli spazi, utilizzabili solo come magazzini: qualsiasi scusa per “ripulire” il Ghetto dall’indecenza delle prostitute.
“A un certo punto ci contestarono che mancavano le uscite di sicurezza in caso di incendio…ma cosa volete che succeda in qualche minuto di scopata! Alcuni clienti sono focosi, ma non è mai andato a fuoco nessuno!”, ride Rossella, ripensando al trambusto di quei tempi difficili.
Con Rossella abbiamo modo di affrontare anche un’altra questione, talvolta banalizzata: l’idea diffusa del “corpo e dell’anima in vendita”, che ancora oggi fa della prostituzione un tabù per la morale comune.
Prostituirsi è un patto con il diavolo?
Non tutte le storie di prostituzione sono uguali, vale sempre la regola per cui generalizzare non è buona cosa e Rossella lo conferma. Per lei, la prostituzione è stata una scelta nata dalla lucida consapevolezza che la società non le avrebbe concesso altro e, no, il suo corpo non lo ha mai messo in vendita, “semmai lo ho affittato per qualche minuto”. Di nuovo l’ironia per raccontarsi senza maschere e ipocrisie:
“Quando ero più giovane c’era chi mi chiedeva perché non cercassi un solo uomo con la grana che mi sistemasse, ma io ho sempre preferito l’idea di tanti uomini che mi sistemassero poco alla volta. Io sono io e non devo rendere conto di nulla a nessuno per la mia vita. I clienti mi danno i soldi, io do loro un servizio commisurato e il tutto si esaurisce lì. Non c’è alcuna ‘prostituzione mentale’”. Sorride. “In alcuni casi i clienti non sono così male e non è difficile assecondarli… poi col tempo si impara. I primi tempi un poco li subivo, poi ho imparato a dominarli, a porre dei limiti, a direzionare il gioco, a lasciarlo condurre fin dove voglio io”.
Se una cosa non le va, non la fa o la interrompe. Un esempio? Ha sempre detto di no a chi si presentava male.
Ci tiene a precisarlo: la prostituzione a casa non è come quella in macchina, dove il contesto porta già da sé all’assoggettamento. Nel vicolo, nel quartiere, i clienti non hanno idea di quale sia la situazione e stanno più attenti. Vi risparmiamo gli aneddoti di Rossella, che con naturalezza dipinge un mestiere che ne contiene tanti altri, tra perversioni e sensi di colpa, confessioni e fantasie; una clientela esclusivamente maschile che è campionario di un pezzo d’umanità – quella sì – fuori dalle righe, sfumata, carica di segreti, debolezze, piaceri; emerge come anche nel sesso-per-lavoro esistano condizioni, professionalità, scelte, limiti da segnare. È chiaro, tale possibilità non è di tutte. Nel caso di Rossella però, l’incontro sessuale è un servizio concordato.
“Certo, c’è la prostituta vittima di carnefice…ma i clienti di un trans non sono quelli di una donna. Insomma, ci sono condizioni diverse che forse espongono meno le trans al pericolo”.
Di ipocrisia, invece, confessa che ce n’è tantissima, tra i clienti, ma anche tra le colleghe. E come stupirsi?
Articolo di:
Amina A. e Corinna T.
Immagine di copertina:
Rossella Bianchi. Foto di Silvia Mazzella
Scrivi all’Autorə
Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.