Cominciamo con qualche domanda -che mi pongo anche io: cosa è indice di qualità in una mostra? cosa ne determina, invece, il successo di pubblico? un titolo intrigante? la fama degli artisti esposti? la forza identitaria che trasmette, per esempio, al contesto in cui viene realizzata? un tema suggestivo? o piuttosto un tema scandaloso? Mentre stavo, tra me e me, formulando le domande, ecco la risposta: per come la vedo io (che sono però una “addetta ai lavori”) una mostra funziona davvero quando non ci inganna, quando è onesta nelle sue intenzioni e nelle sue premesse. O quando ci inganna, sì, ma con intelligenza. Autunno Blu a Villa Croce. Dal blu di Genova di ArteJeans all’infinito di Yves Klein , visitabile -Covid permettendo- fino al 17 gennaio 2021, si compone di cinque, distinti, eventi espositivi, curati da Anna Orlando e Francesca Serrati: qualcosa funziona, qualcosa no.
Provo a spiegarvi il perché raccontandovi più nel dettaglio tre delle mostre, sviluppate lungo due piani del Museo di Villa Croce (che continuo a pensare non sia, per la sua fisionomia, lo spazio ideale per l’esposizione d’arte contemporanea).
Il fil bleu dell’evento generale è indicato nel titolo e reso evidente sulle pareti delle sale, riarrangiate per l’occasione.
L’azienda genovese Boero, quasi 200 anni di storia, è lo sponsor cui di fatto è stato affidato il grosso dell’allestimento, pensato per immergere i visitatori in un preciso “pacchetto cromatico”. Sono le vernici Boero a dipingere le pareti in diverse tonalità, dal bianco panna degli spazi ottocenteschi del piano terra, all’intenso blu cobalto di fine percorso, attraverso un profondo blu notte.
È proprio il colore a “guidarci” lungo una visita che, a quanto pare volutamente, non segue una logica precisa, in virtù della fluidità. In particolare, è stato utilizzato il Magnum Muri Opaco, uno smalto opaco all’acqua per muri, inodore, lavabile e non ingiallente, un’idropittura ad alta copertura. Fatta questa premessa tecnica, un cenno sulle due mostre sulle quali non mi soffermerò lungamente:
Animulae di Fulvio Magurno è una personale realizzata in collaborazione con la Galleria Capoverso di Stefania Ghiglione. L’artista fotografo, siciliano ma genovese d’adozione, presenta una serie di lavori inediti e site-specific: dieci stampe UV riportate su tavola. Magurno utilizza una particolare tecnica fotografica che consiste nel sovrapporre vari scatti dello stesso soggetto per ottenere un’immagine che prova a rivelare non solo la forma ma anche l’“anima”. In questo caso protagonisti sono una serie di Crocifissi dello scultore settecentesco Anton Maria Maragliano, in un viaggio di rivisitazione all’insegna del blu che dal passato conduce alla contemporaneità.
C’è poi Rocco Borella. Omaggio Blu per il centenario, mostra pensata in collaborazione con l’Associazione Culturale Rocco Borella e Luciano Caprile per ricordare, a cent’anni dalla sua nascita, l’artista genovese che con le sue opere arricchisce già la collezione del museo. Sono state selezionate (anche attraverso collezionisti privati) una serie di lavori in cui viene variamente utilizzato il blu. Astrazione e modulazione: Borella, un po’ dimenticato, è stato un attento analista del cromatismo, dello spazio e della luce.
Ma veniamo ora alle tre esposizioni che mi hanno suggerito particolari riflessioni.
ArteJeans: storia di un mito nelle trame dell’arte contemporanea è la mostra realizzata in collaborazione con l’associazione ARTE JEANS di Londra, nata da un’idea di Ursula Casamonti (proprietaria e fondatrice della galleria Tornabuoni Art, con sede anche a Londra) e Francesca Centurione Scotto Boschieri (Ambasciatrice Onoraria di Genova nel mondo e Vice Presidente del St. George’s Club), al fine di supportare, con la creazione di una collezione di opere in jeans, “Genova Jeans”, la grande manifestazione pensata da Manuela Arata ed Emilio Jacopino. Si tratta, quindi, di una speciale anteprima, inserita entro una cornice che è utile raccontare.
“Genova Jeans” avrà carattere annuale e si terrà dal 27 al 31 maggio 2021, sempre Covid permettendo. Sul sito ufficiale si legge a chiare lettere lo slogan “invented here”, inventato qui, ovviamente in riferimento al tessuto di fama internazionale. Fonti e tracce ci raccontano infatti che risalgono al XII secolo i primi tessuti di cotone tinti con l’indaco a Genova.
Nel ‘400 la città di Chieri (comune torinese) produceva un particolare tipo di fustagno dipinto di blu, esportato attraverso il porto di Genova, dove veniva inizialmente utilizzato per proteggere e coprire merci e vele. Era prassi, all’epoca, dare ai tessuti il nome del luogo in cui questi erano stati prodotti o maggiormente sfruttati: il termine inglese blue-jeans potrebbe quindi derivare da una traduzione di bleu de Gênes ovvero “blu di Genova” in francese. Nel ‘500 il fustagno genovese tinto con indaco, resistente e a basso costo, si imponeva in Europa e in particolare nel mercato inglese.
Passa per Genova anche la versione secondo cui i marinai della città erano soliti indossare, per lavoro, pratici e resistenti pantaloni cuciti con una caratteristica tela di Nîmes di color indaco (de Nîmes, appunto, di Nîmes, da cui poi il termine “denim”).
A Genova, in ogni caso, è attribuibile il passaggio di utilizzo del tessuto a indumento da indossare.
Antesignani del moderno jeans sono peraltro considerati gli eccezionali teli comunemente chiamati “Blu di Genova”, provenienti dalla chiesa di San Niccolò del Boschetto in Val Polcevera e oggi temporaneamente conservati presso il Museo Diocesano. Si tratta di quattordici lavori in lino e cotone, tinti con indaco e dipinti a biacca, un tempo apparati effimeri utilizzati, tra devozione popolare e arte colta, durante le liturgie pre-pasquali e commissionati dai monaci stessi intorno al 1538 (data valida per i più grandi).
Su di essi pittori genovesi hanno dipinto scene della Passione di Cristo, ispirate a incisioni di Albrecht Dürer e a invenzioni raffaellesche riprese da Marcantonio Raimondi. È probabile che vi abbiano lavorato, in momenti diversi, anche Giovanni Cambiaso, padre del celebre Luca, e Teramo Piaggio con collaboratori.
Ma l’evento “Genova Jeans” non vuole solo rimarcare il primato storico d’invenzione di uno dei tessuti più iconici e diffusi al mondo.
È dichiarata la volontà di creare una manifestazione accattivante e coinvolgente per i giovani (baby boomers, gamers, anche i millennials!!!); un evento pop, insomma, e “top”, come si precisa sempre sul sito ufficiale.
L’ottica seguita è anche quella della sostenibilità, offrendo ad operatori del settore la possibilità di presentare e progettare pratiche di produzione che rispettino l’ambiente e orientino i consumatori verso scelte responsabili.
Non mancano poi una serie di progetti collaterali piuttosto ambiziosi: è prevista la creazione di una Via del Jeans nelle aree in cui l’antico tessuto veniva utilizzato e commercializzato. Si tratta delle strade del Centro Storico che in questi giorni sono sotto la lente di ingrandimento, quali via Pré, via del Campo, via San Luca. È qua che si programma di insediare realtà commerciali e artigianali del settore tessile. Prevista anche la fondazione di un “Museo del Jeans”, pensato non solo come spazio fisico espositivo, conservativo e d’archivio, ma anche come “museo diffuso” comprendente laboratori e spazi ricreativi.
Questa lunga premessa per inquadrare l’esposizione a Villa Croce e per comprendere entro quale, più ampio progetto si inserisce.
Con ArteJeans vengono presentate in anteprima 24 opere realizzate da 26 artisti italiani, diversi per generazione e linguaggio.
La mostra si sviluppa in cinque spazi, lungo due piani del Museo: una scelta dettata probabilmente da ragioni tecniche e funzionali, che però non agevola la “narrazione”. Qua e là, poggiate a terra, pile di jeans che sarebbe stato interessante poter portare via o poter incrementare durante la visita.
Boltanski, Pistoletto…durante la visita ho sentito una signora chiedersi se non fossero anche quelle parte di un’installazione! Le opere, donate alle Collezioni Civiche di Genova, sono state selezionate dai tre curatori Ilaria Bignotti, Luciano Caprile e Laura Garbarino, e ad accomunarle è il materiale base da interpretare e su cui lavorare, ovvero una tela Jeans 200×180 cm offerta dalla ditta partner Candiani Denim.
A proposito della Candiani mi pare opportuno sottolineare che si tratta di una storica azienda a conduzione familiare, tra le più green al mondo, certamente paladina del made in Italy e della sostenibilità, ma non genovese, bensì milanese.
Tra le opere esposte alcune meritano qualche osservazione e Quel Blu Genova che veste il Mondo di Alberto Biasi, protagonista dell’arte programmata e cinetica europea e tra i cofondatori del Gruppo N di Padova, è una di queste.
Con la sua riconosciuta abilità tecnica, l’artista realizza al centro della tela in jeans un’immagine che sembra animarsi per effetto di una serie di tagli. Sopra di essa campeggia la dicitura antica bleu de Gênes da cui si fa derivare il moderno nome del tessuto; sotto, invece, giocando con una particolare scala di colori, si legge “blu jeans nel mondo”; il Blu di Genova veste quel mondo richiamato dalla forma terrestre al centro, capace di catturare lo sguardo per l’incredibile effetto ottico di moto apparente.
Ettore Favini, classe 1974, è un artista di grande interesse. La sua opera è la sola, tra quelle esposte, che non è inedita e non è stata pensata per ArteJeans; di conseguenza è anche l’unica che non è stata realizzata con il tessuto Candiani. Questo perché già nel 2019 Favini ha ideato Au revoir, bellissimo progetto di arte partecipata curato da Connecting Cultures e Roberta Garieri, vincitore della sesta edizione del Bando Italian Council.
Proprio il jeans era stato scelto come mezzo per raccontare il Mediterraneo e ciò che ad esso è associabile, anche metaforicamente: spazio di incontro, ibridazione e stratificazione fin dall’antichità, luogo delle relazioni culturali, sociali, economiche, come la storia stessa del tessuto dimostra. La mostra (work in progress che promette di approdare a nuovi lidi) è stata ospitata al Carré d’Art di Nîmes, città emblematica perché, come si diceva, da lì deriva probabilmente il termine “denim”. Spazio di confine ma anche spazio aperto, il Mediterraneo. D’altronde l’“Arrivederci” che intitola il progetto (e che verrà tradotto nelle varie lingue dei paesi che lo ospiteranno) è un saluto aperto, che rimanda alla possibilità di un nuovo incontro.
Il complesso lavoro di Favini, che entrerà a far parte della collezione permanente del Museo del Novecento di Milano, ha coinvolto, in un’ottica corale e partecipata, professionisti di diversi ambiti e l’associazione Sartoria Migrante; è stata inoltre organizzata una giornata aperta per la donazione di tessuti da parte delle persone.
Sempre per favorire l’idea di scambio e relazione, si è tenuto un laboratorio della Fondazione per il Tessile di Chieri (antico produttore, se non primo, del jeans) cui hanno preso parte tessitrici del Maghreb. Tra le scoperte di cui Favini ha fatto tesoro interfacciandosi con storici e geografi, anche quella secondo cui la lavorazione “a saia” tipica del jeans veniva realizzata già nel II secolo a.C. in Egitto.
Nella mostra genovese è esposta l’opera Mer Fermée che forse, privata della narrazione del contesto entro cui nasce e del complesso e ricco progetto entro cui si inserisce, non restituisce al fruitore tutto il suo colore e calore.
Si tratta di una cianotipia su tessuto realizzato a mano a Chieri, con una connotazione geografica, cartografica, ma anche simbolica. L’intervento cianografico in blu sul jeans permette di ottenere una curiosa inversione tra terra e mare. Il Mediterraneo, quindi, appare come fosse terra emersa, circondato da un mare di jeans.
Per altro non è semplice riconoscere il Mediterraneo nell’immagine che vediamo: questo perché Favini riprende l’Imago Mundi del cartografo Muhammed al Idrīsī (1100-1166 d.C.) realizzata per Ruggero II e considerata una delle mappe più dettagliate all’epoca; l’antichissima carta ha anche la particolarità di invertire le polarità rendendo così il “mondo arabo” il punto cardinale della Terra. Vi invito a guardarla, l’Imago Mundi, per riconoscervi quel Mediterraneo che Favini riprende e fa letteralmente emergere, raccontandolo così in maniera inedita e caricandolo di storia e significati.
C’è poi un’opera di Emilio Isgrò, artista concettuale, scrittore e poeta. Già agli inizi degli anni ’60 Isgrò opera le prime cancellature -pratica che lo ha reso celebre- su libri ed enciclopedie; un gesto radicale, affatto banale: portatore di un’idea di arte che non è prodotto statico da parete o da piedistallo, che non ricerca la sola contemplazione, l’artista la intende invece come motore e strumento di discussione, di crescita, capace di porre questioni e di stimolare pensiero.
Isgrò si era accorto, quasi per caso mentre lavorava come giornalista, che le cancellature potevano essere potenti quanto e perfino più delle parole stesse, in opposizione a un mondo -in particolare quello occidentale- carico di parola, vittima della sua ingombranza.
La cancellatura è da leggersi anche come la messa in discussione del gesto: l’artista si fa da parte e cancella idealmente il suo stesso io.
In questo modo libera il fruitore dalla ricezione passiva, nel solco di quel concetto di “opera aperta” formulata negli stessi anni da Umberto Eco e al centro dei miei stessi interessi di ricerca. Così nel 1970 Isgrò cancellava l’Enciclopedia Treccani, sorta di monumento fisico al sapere e alla cultura, non per negarne l’importanza, bensì per attivare un processo di rivitalizzazione della stessa. Nel 2010, quando cancella la Costituzione, il senso sotteso è lo stesso.
A Villa Croce è esposta l’opera Tre caravelle tre che ben racconta il principio secondo cui cancellare è un mezzo per evidenziare. Sul blu profondo della tela jeans sono impresse, a contrasto, una serie di frasi connesse a Genova; eliminando accuratamente alcuni termini, e lavorando così in contemporanea sulla parola e sull’immagine, emergono le sagome delle tre caravelle di Colombo del titolo, che rimandano alla storia (e in parte al mito) della città.
Henrick Blomqvist, che nasce come fotografo, propone invece Pastorale, una proiezione video sulla tela jeans. Se si ha la pazienza di guardare per intero il filmato, si resterà affascinati dall’atmosfera sospesa che comunica. Due amiche si incontrano, si affacciano a una balaustra, si divertono insieme, compiono azioni comuni. Il tempo, però sembra stranamente esteso, dilatato, e le protagoniste sono osservate da uno sguardo ambiguo, da una rispettosa distanza. È evidente l’intenzione, da parte dell’artista, di associare al jeans la giovinezza, la città, la moda, l’estetica.
Ma perché proprio loro due? la scena è impostata o è registrata per caso?
Queste sono alcune delle domande che inevitabilmente ci si pone, osservando.
Tra le mie opere preferite quella di Fabrizio Plessi, Liquid Jeans. Come suggerisce il titolo, l’opera gioca con l’acqua. Il grosso pezzo di tessuto è infatti appeso con due pinze, come fosse appena uscito da una lavatrice. Sopra di esso un meccanismo fa scendere l’acqua che lentamente, seguendo un corso che appare del tutto naturale pur essendo provocato da un sistema tecnologico, impregna il jeans, lo scurisce e lo appesantisce. Le gocce giungono faticosamente in fondo, sul bordo basso, per poi raccogliersi in una sottile vasca. Un’opera in divenire, lenta, poetica, metaforica.
Serena Vestrucci, invece, riporta il jeans al mondo per cui probabilmente è nato: quello del lavoro manuale. In jeans sono parzialmente realizzati a mano dei comuni guanti da protezione che però, decontestualizzati ed esposti entro la cornice museale, perdono la loro funzione.
La tela si fa in questo caso scultura e l’oggetto comune, sorta di ready-made, acquisisce un significato diverso, nuovo. Il titolo suggerisce la chiave di lettura: Lavoro protetto. I guanti non sono consumati dal tempo e non sono più mezzo di protezione per un lavoratore o una lavoratrice, sono bensì un “lavoro protetto” in virtù del loro essere “opera” in teca, intoccabili e inutilizzabili.
Cito infine BluGenova e BluOltremare di Gianfranco Zappettini, artista genovese, appartenente alla preziosa esperienza della Pittura analitica che a partire dagli anni Settanta si interroga sull’analisi dei mezzi operativi e dei processi pittorici e alla quale l’artista si dedica anche con importanti contributi teorici. La tela jeans di Zappettini diventa una sorta di sipario formato di tante strisce regolarmente tagliate soggette al movimento, anche impercettibile, dell’aria. L’effetto poetico di apertura verso uno spazio altro è dato anche da un evocativo e al tempo stesso preciso intervento cromatico, sottile ma efficace. Guardare oltre Genova, oltre al mito, questo sembra essere l’invito.
A lasciarmi molto più perplessa è la mostra Klein vs Strozzi. Sotto il segno del blu.
Realizzata in collaborazione con i Musei di Strada Nuova, il MART di Rovereto e la galleria UniMediaModern di Genova.
Il titolo strizza evidentemente l’occhio al grande pubblico con una formula ormai collaudata nella sua efficacia; d’altronde, il confronto tra due grandi maestri dell’arte, specie se di epoche diverse, incuriosisce sempre. In questo caso un’unica sala è dedicata al dialogo tra il maestro genovese del barocco Bernardo Strozzi, detto il Cappuccino, e il grande artista francese Yves Klein, chiaramente menzionato anche nel titolo dell’evento generale.
La suggestione potrebbe essere intrigante, ma qualcosa mi sfugge. Yves Klein (Nizza, 1928 – Parigi, 1962) è effettivamente l’artista -anche- del blu, col quale ebbe un rapporto quasi viscerale, usando pigmenti puri, senza alcun legante. Nel 1957, dopo numerose sperimentazioni, comincia a utilizzare quella che considera la sua più perfetta espressione, sintesi di cielo e terra: l’International Klein Blue – IKB (IKB, =PB29, =CI 77007). Un oltremare unico per luminosità e intensità, mai prodotto industrialmente e praticamente inimitabile, sviluppato in collaborazione con dei chimici sospendendo il pigmento asciutto in una resina sintetica.
A produrre il colore più celebre e iconico dell’arte contemporanea è il colorificio “Adam” di Montparnasse, a Parigi. Da quel momento tele, sculture, oggetti, perfino performance si coloreranno di IKB, così descritto dallo stesso Klein:
“Essenziale, potenziale, spaziale, incommensurabile, vitale, statico, dinamico, assoluto, pneumatico, puro, prestigioso, meraviglioso, esasperante, instabile, esatto, sensibile, immateriale”
A Villa Croce è esposta una Nike del 1961, in gesso colorato IKB. e proveniente dalla collezione Campiani di Brescia. La Victoire de Samothrace (Nike) è un soggetto caro a Klein, replicato in molte copie nei primissimi anni ’60. Si tratta di una riproposizione (e non di una riproduzione fedele), in scala fortemente ridotta, della celebre statua scolpita in pregiato marmo pario intorno al 200-180 a.C. e oggi conservata al Museo del Louvre di Parigi. L’antica e imponente scultura è stata rinvenuta acefala e priva di braccia, ma raffigura certamente Nike, la giovane dea alata adorata dai Greci in quanto personificazione della vittoria sportiva e bellica.
Nello stesso periodo Klein – che da lì a poco sarebbe prematuramente morto – opera con ironica e dissacrante sperimentazione colorando col suo blu non solo l’Afrodite Cnidia di Prassitele, ma anche spugne, pavimenti di gallerie e perfino l’urina dei suoi spettatori offrendo loro da bere un “Blu cocktail” a base di blu di metilene, gin e Cointreau.
A Villa Croce, nella stessa sala ma appeso alla parete, c’è uno dei maggiori pittori del Seicento ligure, Bernardo Strozzi, con il San Francesco che abbraccia il crocifisso conservato a Palazzo Rosso (Musei di Strada Nuova). Certamente interessante è quel fondo blu intenso che sfumando avvolge, come fosse una magica aureola, il volto del santo.
Scelta non troppo comune all’epoca ma che poco ha a che vedere con il lavoro di Klein presentato, né nell’ottica di una sfida immaginaria, né tanto meno in quella di un dialogo/confronto.
Banalizzando – visto il tema che dovrebbe accomunarli -, i blu dei due lavori posti in relazione sono molto distanti. La didascalia che racconta la sala conferma i dubbi: Genova accoglie e declina l’idea di Vittorio Sgarbi realizzata nell’ottobre 2019 al MART di Rovereto, dove un lavoro di Klein di collezione privata era posto in dialogo con la grande pala di Strozzi raffigurante la Madonna con Gesù Bambino in gloria e santi (1640 ca) proveniente dalla Parrocchia dei SS. Pietro e Paolo a Tiarno di Sopra, nella Val di Ledro.
A catturare l’attenzione di Sgarbi fu, durante una visita, il blu potente della Pala, bisognosa per altro di un intervento di restauro. E in effetti, a giudicare dalle immagini, il blu dello Strozzi trentino ha un’intensità sorprendente, inedita. La veste della Madonna e l’indumento indossato da San Pietro risaltano proprio per la scelta del colore e si distinguono come emblemi di spiritualità e santità.
Al MART si presentava il lavoro di Klein in quanto tentativo di superamento della dimensione terrena; non a caso, a confrontarsi con il prezioso Strozzi, c’era uno dei suoi lavori più suggestivi e “spirituali”, ovvero l’Ex voto dedicato a Santa Rita da Cascia (1961), proveniente dal Monastero di Cascia: un contenitore di plastica trasparente suddiviso in scomparti, con tre cassetti che custodiscono rispettivamente pigmento blu-oltremare (il blu IKB.), pigmento rosa (monopink) e oro in foglie (monogold) e una parte inferiore con tre lingotti d’oro di diverso peso appoggiati su una base di pigmento blu. Nella parte centrale del contenitore una larga fessura conserva un testo manoscritto di Yves Klein su sette foglietti di carta tenuti insieme da un sottilissimo filo di cotone. Il testo è un vero e proprio inno di richiesta di grazia alla Santa: dopo averla ringraziata dei suoi precedenti favori, Yves Klein si pone sotto la sua protezione e invoca il suo aiuto per assicurare successo, bellezza e immortalità alla sua opera.
Ma torniamo a Villa Croce dove, sempre nella stessa sala, sono appese sette bellissime gigantografie del grande fotografo Vasco Ascolini, ritraenti una serie di Kata (mosse di judo) performate anche da Klein.
Entrambi furono cintura nera e amarono profondamente la disciplina del judo. Stando a quanto “narrato” in mostra, il legame appare debole a un visitatore comune, a un fruitore che non ha conoscenze pregresse rispetto ai due artisti. Certo, sarebbe sufficiente fare un po’ di ricerca online per intercettare un’intervista per QuidMagazine nella quale Ascolini racconta di aver ripreso quella che per lui, e per lo stesso Klein, è l’essenza dello Zen e del Judo e sottolinea come sia importante distinguere la disciplina-sport occidentalizzata, dalla pratica filosofica (come vissuta da Klein e da lui) vicina alla danza, al teatro.
Chiudo in bellezza, con Ben Patterson (Pittsburgh, 1934 – 2016) e la splendida Constellation of the first magnitude.
L’installazione è stata oggetto, tra il 2017 e il 2019, di un attento restauro a cura di Alessandra Scarano (studentessa del Centro di Restauro della Venaria Reale), con la supervisione della professoressa Alessandra Bassi. In questa occasione l’opera torna quindi per la prima volta in pubblico, negli spazi per cui era stata pensata nel 2002, anno in cui si tenne la mostra The Fluxus Constellation per celebrare i 40 anni del movimento Fluxus.
D’altronde, nella stessa sala, è ospitato in modo permanente Fluxus cannot save the world, un lavoro site-specific realizzato sulla parete con una bomboletta spray da Ben Vautier, altro esponente del gruppo e – bene specificarlo in questo caso – fortemente ispirato dall’opera di Yves Klein, al quale ha dedicato diversi lavori come il Monotone pour Yves Klein del 1963. A ben pensarci, sarebbe stato più onesto e interessante vedere Klein in questa sala, dove dimora anche un pianoforte distrutto, quel che resta di Piano Activities, la performance storica che Philip Corner ripropose a Villa Croce sempre nel 2002.
Fluxus, il cui nome è stato coniato da George Maciunas nel 1961, è stato un “movimento” internazionale tra i più rivoluzionari degli anni Sessanta, con una vocazione fortemente interdisciplinare; vi hanno fatto parte artisti ma anche compositori, musicisti, designer. Se volete saperne di più, è consigliata una visita alla galleria d’arte genovese UnimediaModern (Vico Invrea, 3) o una chiacchierata con Caterina Gualco.
Constellation of the first magnitude ricrea un cielo stellato i cui astri, accesi a intermittenza, rivelano con intelligente ironia i volti degli esponenti del gruppo, abbinati ai loro segni zodiacali. Si riconoscono lo stesso Maciunas -Scorpione, Ben Patterson-Gemelli, Wolf Vostell-Bilancia, Ben Vautier-Cancro…Tecnicamente si tratta di un’installazione a parete costituita da trentacinque plafoniere con copertura in nylon serigrafato e un tubo luminoso.
La “galassia Fluxus” splende su un fondo di intenso blu notte, dando vita e forma a una insolita e preziosa fantasia. Il caso, tra gli elementi essenziali dell’operare Fluxus, regna anche in questo lavoro: gli astri-plafoniere, infatti, si accendono e si spengono senza seguire un tempo e un ordine prestabiliti, in maniera imprevedibile, tanto che l’occhio del visitatore deve essere dinamico, pronto, acceso. Una lunga striscia di led compone infine la parola Fluxus, sorta di stella cadente o di costellazione a parte, anch’essa intermittente.
E nel blu profondo di questo spazio sì, è un piacere immergersi.
Immagine di copertina:
Vista allestimento. Foto di Amina Gaia Abdelouahab
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