A: Il suo lavoro è più facile da capire se sai come finisce, e funziona come una tavola da surf ai piedi di un atleta in forma: finché dura l’onda e l’atleta è in equilibrio, viaggia alla grande. Poco prima di perdere la fase, un attimo prima di cadere, Marco interrompe il processo. Ecco la sua opera.
Sono l’equilibrio prolungato e il rischio dell’accidente a spingerlo, e il caos stellare è il suo universo di riferimento. Fotografie recuperate, di altri, di oggetti, di paesaggi, suggestioni di “mondi altri” che galleggiano in superficie costituiscono il dato di partenza.
Fotografare, segnare, ri-fotografare e cancellare, insieme a guardare e immaginare, è il processo.
G: Assolutamente sì! Risulta più facile, allora, comprendere perché la fotografia viene usata “…come una sorta di esperimento in continua evoluzione, alla ricerca di qualcosa di sfuggente nel divario tra la realtà e la sua rappresentazione” (sic). Questa attitudine si percepisce, nelle sue immagini, dal momento in cui non si può né fare riferimento né essere certi di una sola e assoluta verità: sembra che tutto possa essere messo in dubbio e allora Marco decide di rendere visibile proprio quell’incertezza.
Il suo lavoro però non si ferma solo a questo.
A: quando abbiamo chiacchierato, a marzo, lui non si era ancora concentrato sulle serie Pensare un segno e Corpo di luce, ma credo che valga la pena prenderle in considerazione. Come l’ultimo tassello del puzzle, ci permettono di vedere l’intero suo lavoro sotto una luce più chiara.
Emerge forte e chiaro un altro punto cardinale che orienta il suo lavoro: la lotta senza fine con la narrazione.